c'era una volta
il vino

AIS Staff Writer

C’era una volta il vino novello. Nel giorno prefissato ogni azienda immetteva sul mercato il prodotto della vendemmia appena conclusa. Fu un boom insolito e fulmineo, dissoltosi perché il mercato dotto e acculturato lo osteggiò, e a nulla valsero i tentativi di premiare le produzioni di qualità. A tappi fermi è chiaro che tale rinuncia ha contribuito alla diminuzione del consumo di vino in Italia, dirottando quei consumatori (non del tutto e non per forza esperti o presunti tali di vino) su bevande diverse.

Il novello si distingueva per l’immediatezza della beva. Questa dimensione di vino da bere – ossia stappare la bottiglia, versare il contenuto e sorseggiarlo, aggiungiamo, in modo consapevole – sembra sparita. Nel mondo eno-mediatico circolano moltissime notizie sui vin fin, gli outstanding wine, il business wine; i quotidiani finanziari discettano di investimenti nel vino, analizzando classicità di vecchi millesimi, anteprime, en primeur e vendemmie recenti dei nuovi attori del comparto. Lo sviluppo del web e del commercio online ha modificato l’approccio tra vino e acquirente, permettendo di spaziare nelle migliaia di enoteche (virtuali e non) di tutto il mondo. I siti specializzati in vini costosi si sono decuplicati, mentre nuovi acquirenti (spesso orientali o genericamente neofiti) hanno iniziato ad acquistare vini perché blasonati, creando un circolo vizioso: ci sono più collezionisti che cultori di vino.

L’atteggiamento è simile a quello dei mercanti d’arte, che girovagano per i mercatini dell’antiquariato con l’occhio attento a scoprire un pezzo pregiato. Nel vino in rete, come accade al mercatino, è stato inserito il vero accanto al falso, in una proporzione che ha premiato il non vero, con conseguenze anche penali per alcuni personaggi. Clamoroso il caso di Kurniawan, un indonesiano che viveva a Los Angeles, nickname Dr. Conti: si fece un nome nel mondo dei collezionisti di vino spendendo, dal 2003, circa un milione di dollari al mese per acquistare il meglio in fatto di grand cru, clos e annate storiche di Borgogna. La sua reputazione si consacrò nel 2006 con una vendita da 35 milioni di dollari. Iniziò poi a macchiarsi di problematiche d’autenticità nel 2008 a causa di un Clos de la Roche 1929 di Ponsot, mai prodotto, e di Clos Saint-Denis inesistenti. Agiva attraverso case d’asta di specchiata reputazione, pertanto occorsero quattro anni per sbrogliare la matassa dell’imbroglio che aveva ordito.

La diatriba del probabile falso odierno viaggia tra gli States e Hong Kong, quest’ultimo fiorente mercato d’aste per l’assetata Cina. In modo più o meno velato, è in corso uno scambio d’accuse tra esperti per vendite di vini “falsi d’autore”. Andando avanti di questo passo, gli scenari potrebbero proiettarsi in un paradosso eno-fantascientifico. Sta nascendo il germoglio del dubbio, cioè se la bottiglia di Mouton-Rothschild, di Henri Jayer, di Sassicaia (già falsificato una volta in Italia) o Roumier che si è in procinto di stappare sia o no originale, più preoccupante ancora se si vuol vendere qualcosa. Ex appassionati di vino si sono trasformati in collezionisti e poi in eno-finanzieri, rivendendo i pezzi pregiati della propria raccolta non in prima persona, ma attraverso broker, e in mercati lontani dalla loro residenza, con sibillina silenziosità e flemma da business men. Quando i valori del mercato superano di gran lunga il valore agricolo, come nel caso del Richebourg di Jayer che ad agosto 2015 spuntava un prezzo di 15.195 dollari, corrispondente a 20,28 dollari al grammo, quasi sulla scia dell’oro, tutto questo si può ancora chiamare vino?

Spostato sul terziario finanziario, questo vino non attrae più le sofisticazioni di sopravvivenza, ma quelle di sopravvenienza: non si allunga con l’acqua o con qualcosa di scadente (fa troppo Medioevo), si agisce sull’etichetta, sull’abbigliamento, si appone una firma falsa. Quel vino, giunto in tavola (ammesso che ci arrivi), chissà quanta naturale ossidazione ha assorbito e chissà se è possibile riconoscere l’origine, figuriamoci poi se sapesse di tappo. Il sommelier è in grado di dare un prezioso aiuto sull’integrità del vino contestualizzando la vendemmia, ma non basterà più, perché prima si dovrà verificare se la bottiglia è autentica. Non è uno scherzo. È nata la figura di “esperto nell’autenticazione del vino”, la cui tariffa per indagare, osservare, analizzare l’etichetta, la capsula, il vetro, andare a ritroso alla ricerca di una tracciabilità, oscilla tra i 250 e i 500 dollari a bottiglia, con variabili di prezzo collegate all’età, al formato, alla rarità e alla frequenza di contraffazione.

Quando i nuovi “billionaire wine collector” si presenteranno al ristorante per deliziarsi con qualche perla enologica, potrebbero arrivare a chiedere prima il certificato di autenticità del vino, come accade per i quadri. Eppure, il certificato potrebbe non essere una garanzia sufficiente, per cui si giungerà al paradosso che l’autenticatore dovrà apporre una firma da qualche parte sulla bottiglia. E poi il paradosso totale: si stapperà la bottiglia (a proposito, se il sughero è originale, si vedrà solo ora) e il sommelier, serafico, sentenzierà: “Ossidato”! Non contenti, si passerà il vino al laboratorio chimico per stabilire se quell’ossidazione sia o no compatibile con i valori della vendemmia e del costo d’acquisto.

Questo siparietto, che ha ancora i contorni della fantasticheria, sembra in via di prossima materializzazione; se così sarà (ma si spera in un regresso), il vino sarà completamente spersonalizzato come bevanda. I sommelier del futuro potrebbero dover acquisire una professionalità molto poliedrica, che includerà il saper riconoscere sull’etichetta se l’inchiostro è corrispondente alla tipologia che l’azienda usava. Si parlerà di tracciabilità certificata e, quasi per forza, il vino sarà proprio quello perché è stato autenticato. A quel punto di massima tristezza si dirà: “C’era una volta il vino”.