Tiroler
Champagner

Christine Mayr
Roberto Bellini

La Bella Époque dei boulevard parigini si stava spegnendo senza che quei primi cultori della gioia di vivere in libertà ne avvertissero il pericolo; uno spirito intriso di frizzanti euforie si era diffuso in molte capitali europee e imperava ovunque il senso dell’apparire, sia del commercio sia della persona. Fu un movimento così pieno di risorse geniali e di egemonizzazione che il vecchio continente non poté prescindere dal far assurgere a bevanda ufficiale di quella prosperità un prodotto diabolico e misterioso come lo champagne. Il suo cuore carbonico pulsava, palpitava, nei café della Rive Gauche parisienne, accompagnando pomeriggi più o meno letterari, dove gli svolazzanti cappelli delle fille e delle nuove demi-monde coloravano i tavolini, mentre le sinuosità dei loro corpi nebulizzavano di eau de parfum l’aria che si rinfrescava incontrando il tramonto. La notte i tappi saltavano a Pigalle, omaggiando le sensualità e le trasgressioni che Toulouse-Lautrec aveva ben colorato nelle sue tele a fine Ottocento. Quella fu la vera Bella Époque, uccisa in un sol colpo nel 1914.

L’Italia del 1909 – questo è l’anno che ci interessa – sembrava vivere i tentennamenti politici di oggi. Ciò che spingeva la cultura non passava certo dal vino, e uno dei pochi sussulti fu impresso da Marinetti, che su “Le Figaro” pubblicò il Manifesto del Futurismo. Un pezzetto dell’Italia di oggi, e che all’epoca non lo era, si diede da fare per penetrare nel mondo sparkling dell’Europa che contava: era l’Alto Adige, cioè l’austriaco Sud Tirolo. A quell’epoca riuscire a ufficializzarsi come produttori di vino in champagne-style non era cosa da poco, e le Maison della Marne erano già all’avanguardia nel nascente mercato del marketing. Così gli Altoatesini corsero ai ripari attingendo alla genialità pubblicitaria di Ludwig Hohlwein, che inventò il “Tiroler Champagner” per il produttore W. Burk.

Questa premessa del nostro viaggio nel vino del Sud Tirolo ottenuto da rifermentazione in bottiglia ci pare un punto di partenza interessante e suggestivo, poiché quello Champagner 1909 illumina di particolare chiarore un’invenzione (o comunque una primogenitura) che altri territori dell’Italia del vino cercano ancor oggi di far propria. La storia di quel germe carbonico quasi s’addormentò quando i vigneti furono annessi all’Italia, ben altre furono le questioni che rifermentarono in riva all’Adige, e la versione ferma dei vini bianchi penetrava facilmente i mercati delle regioni circostanti, in virtù di un’identità qualitativamente dissimile, cosicché molte aziende spumantistiche venete e della Bassa lombarda si rifornivano di queste freschezze e di queste mineralità enoiche.

Anche il consumo di vino si muoveva in direzione “ostinata e contraria”: il tedesco consumava il trocken e lo champagne, la parte domestica sorbiva vino bianco fermo fino a mezzogiorno e poi si gettava sul rosso. Il momento dell’aperitivo con bollicine non trovava spazi di interesse.