Ha dato il nome a un periodo geologico celebre per la presenza dei più grandi esseri viventi mai esistiti, ma il Jura è culla di altri mostri sacri dallo stile inconfondibile.
jurassic jura
Giorgio Fogliani
Nel marzo del 2016 un importante giornalista di vino pubblicava, con fare giocoso ma non privo di una vena polemica, “un sintetico colpo d’occhio sulle principali tendenze degli enofili nostrani”. Nell’articolo, la voce “vino del Jura (qualsiasi)” rasentava il massimo della scala modaiola, mentre “uvaggi bordolesi”, per dirne una, raschiava il fondo. Se di moda si tratta, però, deve riguardare una nicchia ben ristretta, dato che in un’enoteca italiana è tuttora assai più facile imbattersi in un uvaggio bordolese che in un Arbois o uno Château-Chalon.
Più o meno nello stesso periodo partivo per il mio primo viaggio nella regione, diretto a Le nez dans le vert, la rassegna annuale che raccoglie i più intraprendenti vignaioli locali. Ciò che colpisce immediatamente di questo lembo di Francia è la sua natura schietta e poco antropizzata, cosparsa di boschi e minuscoli villaggi. Le poche cittadine, Arbois su tutte, sono graziose, ma la sera sprofondano in un silenzio quasi irreale. Un paesaggio certamente dolce, quindi, ma al quale chi abbia letto L’avversario di Carrère non potrà non associare qualcosa di vagamente sinistro, immaginando Jean-Claude Romand, solitario e disperato, “perdersi tra le sue foreste”.
In questo contesto, la viticoltura sembra recitare un ruolo quantitativamente marginale, e difatti, per il francese medio, il Jura evoca più che altro montagne verdi, sport invernali e comté; o, se pensa al vino, sarà con ogni probabilità il vin jaune, certamente il più emblematico e affascinante della regione, ma che non rende giustizia a tutto il suo dinamismo e al suo potenziale. Eppure il settore vitivinicolo ha un passato illustre, se è vero, come ricorda François Morel (Jura. Il territorio, i vignaioli, i vini, 2015), che nel 1836 poteva vantare più di 18.000 ettari vitati, ridotti a 600 negli anni ’80 del Novecento e “risaliti” oggi a circa 2000. Di quel passato illustre dev’essersi ricordato anche Jacques Brel, che alla sua ultima cena (Le dernier repas) avrebbe voluto che si bevesse “ce vin si joli / qu’on buvait en Arbois”.
Questa piccola regione della Francia orientale, subito a nord della Savoia e non lontana dalla Svizzera, presenta alcune caratteristiche a essa soltanto peculiari: un terroir complesso e stratificato, un patrimonio ampelografico indigeno e una tradizione dell’affinamento ossidativo che la accomuna a luoghi geograficamente e climaticamente assai lontani come Marsala, Bosa o Jerez.