In certe oscure trattorie di periferia o nelle sale di qualche vecchio ristorante, di quelli con la boiserie a listoni e le tovaglie, servono ancora le pietanze in piatti tondi di porcellana bianca. Immagino i vostri sguardi increduli. Ma vi assicuro che nelle plaghe più retrograde della nostra ristorazione, quell’oggetto è una sorta di feticcio. Un mito pagano che non tramonta.
So bene che la logica moderna ci impone nuovi orizzonti. E se proprio vogliamo che siano candidi, i piatti dovranno avere geometrie nuove. Anzi, “innovative”, perché anche il linguaggio va aggiornato.
Ho visto piatti quadrati, rettangolari, dirupati, oblunghi come palle da rugby, a forma di anfora spiaccicata, di zoccolo ortopedico. E ho conosciuto fondine abissali, nelle quali il cucchiaio si perde. “Cameriere, mi porti altre posate o chiami un palombaro, ma faccia in fretta che si raffredda la minestra.”
Altri chef preferiscono servire il consommé in superfici piane, segnate da una leggerissima conca centrale, dove i liquidi tendono a tracimare, minacciando da vicino le nostre camicie. I più illuminati, però, non si limitano a piccole variazioni. Orientano il loro genio sublime su forme più personali. Il cuoco giapponese di un ristorante di Milano, per dire, dispone le proprie creazioni in un piatto fratturato in più punti e persino monco di alcuni frammenti. Perché? Forse per rimarcare apertamente la rottura col passato. O per risparmiare ecologicamente sulle ceramiche, come sussurrano i maligni.
In un altro locale d’avanguardia, consegnano un tocco di cervo crudo sulla superficie scabrosa e gelida di un sasso. Per ritagliarsi dignitosamente qualche boccone, occorrerebbero mesi di prove all’arma bianca. Ma è spassoso seminare pezzetti di carne sanguinolenta sul tavolo e sulla manica del commensale.
Molto scenografico anche il tronco di legno, che viene governato dal cameriere con entrambe le mani, non senza fremiti acrobatici, nel timore che il cibo sovrastante si scapicolli sul pavimento o sulla nuca del cliente. E pazienza se, nella migliore delle ipotesi, si seminano briciole di corteccia. Ingurgito volentieri anche quella, se lo chef è contento.
Ultimamente, vanno molto di moda i barattolini di vetro, come quelli che usavano le nonne per le conserve. Sono davvero graziosi. Personalmente li adoro. Oltretutto, sono un incentivo ai propositi di dieta, per la capienza ridotta e per l’altissimo coefficiente di difficoltà nell’estrazione del cibo. Ma anche le foodblogger li adorano e squittiscono graziosamente quando giunge per loro una parmigiana di melanzane o un tiramisù incollati in quei vitrei contenitori.
Il supporto che amo maggiormente, tuttavia, è un altro. E per fortuna sta prendendo piede persino nelle sale da pranzo più popolari. Non riesco a farne a meno. Mi riferisco alla mattonella di ardesia nera. Che gioia e che brividi nell’udire lo stridore metallico del coltello e della forchetta su quella crosta dura e levigata. E se resta un intingolo o un condimento, sono lieto di esibirmi in una prova di coraggio, passando sulla pietra un tozzo di pane e dissimulando quel filo di allegro ribrezzo che mi attanaglia.