Apologo semiserio del sommelier fresco di diploma.
i nuovi
mostri
Alessandro Antonelli
Ci avevano avvertito, quindi è inutile fingere trasalimento. Qualcuno di noi era forse distratto, mentre il docente ammoniva che una volta varcata la soglia dell’aula nulla, ma proprio nulla, sarebbe stato come prima. Trafitti dall’odio sociale, messi in quarantena dal senso comune, ghettizzati in una bolla eterea di misterici sentori, estromessi dal gusto della gggente. No – ci dicevamo – la nuova generazione non farà questa brutta fine.
E invece eccoci qui, piccoli nerd della vitis vinifera, manieristi del linguaggio sinestetico, cantori del bouquet sospesi tra neologismi e civetterie, con la mente ancora alle precedenze nei pranzi di gala o ai volubili umori delle temperature di servizio.
Chi giura di essere rimasto puro e incontaminato mente sapendo di mentire. C’è un anno zero per gli adoratori di Bacco e questo è il corso di formazione per sommelier, approcciato con laicità, con l’illusione dell’hobby, per poi scoprire che è stato congegnato al preciso scopo di trasformare semplici curiosi in pericolosi ayatollah. Da quel momento in poi non esiste infatti possibilità di ritorno. Perché è vero, il vino è convivialità. Ma è convivialità tra pari grado, nessuno è più disposto a retrocedere di livello e ciò, va da sé, può dare origine a tutte le declinazioni della parola “sociopatia”.
Addio cene a vanvera, addio gite fuori porta col rito tribale del boccione tanto al litro. Si simula leggerezza davanti alle intemperanze del blasfemo, s’accorda ipocrita clemenza al miscredente che scivola sui fondamentali, ma dentro si patiscono sofferenze atroci. Ho visto colleghi obbligati a sorridere alle più ignobili parodie, fare buon viso a perfidi luoghi comuni, meditando nel profondo del cuore un repentino autodafé con dose letale di solforosa.
A pensarci bene sono contromisure un po’ naif per resistere agli attacchi concentrici dei detrattori e degli invidiosi. Ma soprattutto dei profani, i veri nemici del cadetto reduce da full immersion accademica. Amici e parenti, mariti e mogli. Sono dappertutto. Sono i “normali”. Ti guardano con quella traiettoria sbilenca che sta a metà strada tra l’ammirazione e il sospetto, lo stupore e la compassione. Ti irridono se dici “vinoso”, figurarsi se ci si arrischia nel foxy. Quelli che riempiono il calice ben oltre i tre quarti e lo afferrano dal bevante. Quelli che il vino – pazzesco! – se lo bevono, mentre tu sei ancora impegnato in una mescita da alchimista, roteando quantità molecolari per verificare l’incidenza dei composti glicerici. Quando alla luce soffusa di stramaledetti apericena intravedi finalmente la celebre unghia aranciata (la nostra personale aurora boreale), hanno già pagato il conto. E rimani seduto lì, da solo, come nel più angosciante dei quadri di Hopper.
Cecchino del cardamomo, che ormai percepisce d’impatto in ogni campione, il sommelier fresco di attestato soffre di due complessi opposti ma egualmente nefasti: l’eccessiva soggezione – per due mesi si vola basso, 82 politico anche all’aceto – e la sconfinata arroganza, quella che porta ad avvertire i terziari nel grappolo in fase di allegagione.