organo
e pregiudizio

Fabio Rizzari

C’è un modo leggero, cordiale, non offensivo di ironizzare sui gusti altrui; un modo rispettoso, democratico, orizzontale, in cui lo svolazzo scherzoso è innocuo. All’opposto c’è un modo snob, antipatico e sprezzante di ironizzare sui gusti altrui, dall’alto di una presunta superiorità culturale o di chissà quale sensibilità superiore. Nel caso che sto per descrivere, scelgo ovviamente il modo snob e sprezzante.

Tra le mille sottovalutazioni e distorsioni che feriscono la musica cosiddetta colta nell’opinione comune, una delle più urticanti riguarda la musica d’organo. Per un singolo soggetto che viene sedotto dalla sua profonda, avvolgente sonorità (“un suono che sembra provenire dalle viscere della terra”, secondo un personaggio del film felliniano La dolce vita), ce ne sono cento che rimangono prigionieri dell’immagine convenzionale dell’organo a canne che ci viene propinata fin da bambini: atmosfere gotiche da film dell’orrore, lo psicopatico che pesta i tasti dopo aver avvelenato la sua vittima, lo scienziato pazzo che trama per distruggere il mondo.

Oppure, nella meno distorta delle ipotesi, la sua musica è associata alle più deprimenti cerimonie religiose, scambiata per il flebile belato di uno strumento molto diverso, lo sfiatato harmonium.

No, mi dispiace. L’organo non è né una tremolante gelatina che si coglie appena nel sottofondo di un coretto di voci bianche, né il disturbante strombazzamento acustico di una pellicola sui vampiri.

È tutt’altro. È il più ricco, iridescente caleidoscopio sonoro tra gli strumenti musicali. Può essere ed è spesso uno strumento vitale, luminoso, pieno di energia. Può generare onde sonore telluriche o soffi sottili, filati sonori delicatissimi. Può ipnotizzarvi con suoni trasparenti come un cristallo o farvi saltare le otturazioni dentali.