Roussillon, Francia caliente Roberto Bellini Mentre il nuovo mondo enologico entra nel pieno dei suoi cinquant’anni, il vecchio mondo ha rischiato di evolversi in modo troppo frenetico, disinteressandosi del proprio cordone ombelicale che lo lega al terroir. Questo cordone, via via allungatosi, si è assottigliato, col pericolo di spezzarsi, cancellando la possibilità di attingere alle proprie cellule eno-staminali in caso di gravi pericoli o aggressive contaminazioni. Oggi il protendersi nel nuovo sembra essersi fermato e un viaggio in retromarcia è già lentamente iniziato. Non è un ritorno al passato, un’involuzione, ma una reinterpretazione di alcuni territori, permeando la produzione tradizionale di nuova linfa. Accade nei territori di frontiera, nuovi Far West, con una corsa all’oro attraverso sentieri non più da esplorare, ma vestiti di ricordi agricoli d’antan, quando il vino era alimento e corroborava lo spirito, i muscoli e le fatiche dei primi proletari nell’era industriale moderna dell’operosa Francia settentrionale. Quelle lotte enoiche per produrre in quantità, sfruttando la diligente neutralità dell’aramon, non riecheggiano più nella memoria dei vigneron; oggi le nuove generazioni interpretano la viticoltura con la visione del “tutto è possibile”. Il Roussillon incarna il Sud della Francia. Qui una buona percentuale della popolazione comprende il catalano e la corrida a las cinco de la tarde è una tradizione ben radicata, così come a maggio si fa festa con l’Ascension Flamenca. Il rischio che l’uva si abbronzi è reale, e il fatto che spagnoleggi è una certezza, cosicché l’appartenenza allo stampo enologico meridionale è stata per lungo tempo un dato di fatto, interpretato e raccontato con sufficiente provincialità. Ne è testimonianza l’eccellente produzione di Vin Doux Naturel (VDN), dal Maury al Banyuls, dal Rivesaltes al Saint-Jean de Minervois, con declinazioni cromatiche che passano dal dorato del moscato al rosso mogano del grenache noir in stile rancio. Questo tipo di enologia non è in grado di far emergere appieno l’individualità creativa dei viticoltori; l’aggiunta di alcol è una sorta di sonnifero, di calmante, se non una pillola contro una digestione difficoltosa e i suoi effetti, seppur qualitativamente benevoli, al pari delle medicine, sono determinati dallo stesso principio attivo: il mutage, talvolta accompagnato dal rancio. Il Roussillon è un blend non solo nelle varietà, è una miscela di terra geograficamente e geologicamente complessa, con innumerevoli variazioni di suolo e un ventaglio climatico estremo: dal caldo, arido e polveroso hinterland di Vingrau alle leggiadre collinette dalle temperature più miti che si affacciano sul mare sovrastando Collioure, famosa anche per le acciughe salate. La colorazione del suolo sembra comporre il vestito di Arlecchino, tanto è nero del scisto di Maury e rossiccio a Banyuls, nella Côte Vermeille, e non mancano gesso e calcare. La combinazione tra suolo e clima influenza l’espressività dei vini, specialmente quelli senza mutage. Negli ultimi anni è emersa l’individualità dei nuovi vigneron, desiderosi di staccarsi dall’abitudinarietà del VDN. L’assenza di una gerarchia stile Bordeaux o Borgogna favorisce il trasferimento del fattore umano nel vigneto; non ci sono eredità da tutelare e/o culle enologiche da salvaguardare o preservare, e l’aramon non trova più consensi. I produttori osservano in maniera distaccata la rigidità legislativa delle AOC, e trasgredire alla certificazione che lega vitigno e territorio non è più considerato un oltraggio al lavoro del tempo che fu, ma un’occasione per eccellere. È questo un territorio di “Coopé”, segnato profondamente da una ruralità senza ricchezza, dove le crisi sociali degli inizi del ’900 produssero non poche rimostranze e tumulti, dove la solidarietà cooperativistica salvò la viticoltura, si dotò di meccanizzazione e tecnologia, ma lasciò colpevolmente e per troppo tempo i conferitori in una posizione di stanzialità intellettuale e creativa. Solo in seguito si comprese che il cooperativismo e il sociale non progredivano saldati l’uno con l’altro. Nacquero i primi pionieri, o meglio, nello staccarsi dalle Coopé, lo diventarono. Gérard Gauby è stato uno dei primi produttori di quell’avanguardia a prendere le distanze dalla filiera della cooperazione viticola. “I miei vini dovranno avere una classe mondiale”, ripeteva a chi andava a trovarlo a Calce, “non c’è grande vino se non c’è mineralità”, ed era ancora il 1985. Solo un pazzo genialoide, che diceva di abitare nella Catalogna del Nord, poteva credere nel successo di un Roussillon dal gusto non fortificato. I primi anni non furono facili per Gauby, i suoi rossi risultavano tannici e concentrati, ma col tempo riuscì a trovare un equilibrio straordinario e l’esplosione sconquassò tutto il Midi. Fu il Muntada, un rosso della AOC Côtes du Roussillon Villages (denominazione che faceva impallidire i puristi e l’aristocrazia del vin français) a sbaragliare il campo dell’indifferenza verso questo terroir. Il calibrato mix di uve grenache noir di cinquant’anni, di carignan ultracentenarie, con un tocco di mourvèdre e di syrah d’una quindicina d’anni, restituì ciò che il sole aveva maturato. Un colore dall’intenso e maestoso manto rubino, un fruttato pieno di rinfrescante ciliegia, un floreale di lavanda quasi arso dal sole e un tocco di meridionalità nella pelliccia, nella carne arrostita e nella terra rossa ferrosa; gusto imponente, con tannino gigantesco e gommoso, con acidità scarna ma capace di insaporire la mineralità terrosa, e infine quell’incredibile finale al gusto di fragola. Gauby produce anche vino bianco da grenache blanc e grenache gris con resa estrema, solo 15 ettolitri per ettaro, etichettandolo Vin de Pays des Côtes Catalanes. Descriverlo è quasi inutile, tante sono le sfaccettature organolettiche; si rischia di essere scambiati per degustatori euforicamente alticci. L’azienda consiglia di consumarlo nell’arco di una trentina d’anni e il ricordo corre subito al Viura di López de Heredia. Il coraggio di Gauby ha scavalcato lo steccato in cui il Roussillon era stato imprigionato senza distruggerlo, perché c’è sempre un signorile rispetto per i caldi VDN. Egli, pur distinguendosi nel nuovo, non ha innovato nei vitigni, ma ha fatto emergere il meglio da quelli che la sua famiglia coltivava da anni. Altri pionieri del Roussillon sono indubbiamente Hervé e Claudine Bizeul al Clos des Fées. Diversamente da Gauby, lo stile Bizeul punta meno sul potenziale del tannino, cercando la morbidezza e la sapidità nelle vigne centenarie di grenache noir e carignan. Finale sottilmente sciroppato, senza marcare la meridionalità, per La Petit Sibérie (grenache noir con un pizzico di syrah e di mourvèdre), un vino provocatorio di nome e di fatto, perché lo stile non rientra in alcuna categoria di terroir. Bizeul si avventura anche nella coltivazione di vitigni non indigeni, come cabernet franc, merlot e tinto fino. Il syrah in purezza esibisce in etichetta un torero che mata il toro: il feeling con la Catalogna resiste. Anche l’interpretazione del Vin de pays cambia totalmente nel Roussillon, concepito in una veste non convenzionale, da mettere in risalto per la sua disuguaglianza, mentre nel resto della Francia è confinato a qualcosa di poco costoso. Due stili, due personalità e due nuove strade enologiche si dipartono dal cuore di questo microterroir, chiamato in catalano Rosselló; una volta aperta la strada, altri hanno deciso di percorrerla. Chi ha deciso di avventurarsi on the road? Sulla strada della nuova frontiera ci sono i vigneron con la mentalità più aperta: Domaine Léonine, Domaine Laguerre, Domaine Matassa, Olivier Pithon, Bruno Duchêne, Ghislaine Magnier e Domaine de la Rectorie. Per chiarire il concetto, Poulain e Jacquelin nel libro Vignes et vins de France, nel 1960 definiscono il vino bianco dei Pirenei orientali vin vert. I vignaioli sfruttavano il macabeo vendemmiandolo a maturazione anticipata, in stile portoghese (vinho verde), creando un prodotto leggero al gusto e fruttato. Se da una parte Clos des Fées e Gauby hanno impresso un balzo nel valore di mercato dei loro prodotti, con bottiglie che sfiorano i duecento euro, Domaine de la Rectorie ha piazzato una serie di vini secchi di ottima fattura a prezzi molto ragionevoli. E questo accade a Collioure, nei cui vigneti prima si sceglievano le uve da destinare ai Banyuls, con le restanti si producevano vini non fortificati rossi e rosati, e solo dal 2002 alcuni bianchi. “I produttori di Collioure e del circondario non avevano molta fiducia nel grenache blanc e gris e nel macabeo, figuriamoci come poteva essere trattata la malvasia del Roussillon, alias tourbat”, così Thierry Parcé (Dom. Rectorie) rappresenta la mentalità che aleggiava una trentina d’anni fa. Il cambiamento impresso dal Domaine de la Rectorie riguarda il vino rosso, ma è soprattutto il bianco, seppur poco prodotto, il più sorprendente: il fruttato è poco riconducibile a una viticoltura del caldo, ha un floreale delicato (convolvolo e iris bianco) e una rinfrescante saporosità. Il gusto di questi vini pionieristici appare più affine alla new verve della Rioja e della Ribera del Duero che non alla tradizione della Langue d’Oc. La Rectorie ha sposato la filosofia produttiva dell’easy to drink, non inteso come neutralità e leggerezza gusto-olfattiva, ma come gusto da sorbire con immediatezza, senza interrogarsi sull’estratto secco, ma compiacendosi del fatto che dopo un sorso se ne desidera un altro. Il rinnovamento del Roussillon ha sfruttato i vecchissimi ceppi di grenache noir e di carignan, le rese controllate, la conduzione natural del vigneto e le barrique di legno nuovo, per creare un gusto distante dai cabernet e dal merlot. Nel vino bianco sono andati oltre, il grenache e il macabeo diventano Vin de pays perché la legge obbliga a mostrare in etichetta un grado alcolico non superiore al 13%, cosa molto improbabile in questo territorio. Se le uve sono raccolte per seguire la gradazione di legge, il vino non riuscirà ad armonizzarsi e languirà in un sapore senza preziosismi organolettici e senza eccellere in un gusto dissomigliante dallo chardonnay, dal vermentino e dagli altri nobili vitigni settentrionali che qui trovano ospitalità. Il nuovo ha portato nel Roussillon anche i “garage wines”, e Ghislaine Magnier del Casot des Mailloles a Banyuls ne è un esempio. Lo è soprattutto nella mentalità, oltre che a vinificare davvero in un largo garage. I suoi sono tutti Vin de table, non per scelta, poiché nelle commissioni di degustazione per l’AOC l’autarchia di profumo e di gusto dei vini del Casot des Mailloles li indirizzava alla bocciatura, non essendo riconducibili alla convenzionalità produttiva. Così hanno fatto di necessità virtù, e di virtù uno spunto di qualità mondiale. Adesso il mondo del vino guarda con attenzione al Roussillon, e i vigneron sembrano intenzionati a stupire ancora: non manca loro la sregolatezza del genio, il terroir e il senso dell’avventura.