rosse fragranze Roy Zerbini La parte più intrigante della degustazione di un vino riguarda indubbiamente la sfera olfattiva; l’abilità razionale nel coglierla compiutamente qualifica il degustatore e ammalia il pubblico. Eppure, l’odorato è un senso che si sviluppa da solo, nessun allenamento specifico lo migliora; alcuni esercizi possono svegliarlo, stimolarlo e disciplinarlo, ma la vera accelerazione sensoriale sta nella capacità di memorizzazione. Secondo i puristi dell’analisi organolettica l’olfatto mette in comunicazione l’individuo con l’ambiente, in questo caso il vino. Questo senso ha anche la prerogativa di mettere il degustatore in relazione con il proprio ambiente interno, grazie alle vie retronasali che consentono agli aromi di risalire dalla bocca ai recettori olfattivi. La doppia attitudine dell’odorare, diretta e indiretta, ha permesso di stabilire una distinzione tra i profumi e gli aromi del vino: i primi si avvertono con l’inspirazione, i secondi con l’espirazione. Questa combinazione è stata definita simultaneità. Il vino ha in sé il meglio e il tutto per stimolare il desiderio di annusare del degustatore, anche se si lascia sempre uno spazio di mistero, di salvezza, impossibile da raggiungere. Mentre nel vino bianco è più frequente incontrare una successione determinata di sentori, che passano dal vegetale al floreale al fruttato, nel vino rosso i profumi che si offrono per primi, secondo la tipologia di vino, possono essere fruttati e floreali congiuntamente. I richiami floreali, come la peonia, la violetta, la rosa, si mescolano a quelli fruttati dei piccoli frutti, quali il ribes rosso, il ribes nero, la ciliegia, la fragola, il lampone, la marasca, la mora o il mirtillo. Un vino rosso destinato a un lungo affinamento presenta profumi molto differenti; la sua intensità aromatica potrebbe essere debole, anche mascherata, nonostante sia parte integrante della vita del vino, ma sarà successivamente impreziosita e arricchita da cenni speziati, balsamici e da altri sentori scaturiti dall’uso della barrique. Gli intrecci sono molteplici e per questo entusiasmanti, tuttavia un senso di lieve sconforto talvolta attanaglia un po’ tutti. Per non sprofondare nel delirio dell’invenzione, deleterio per il degustatore e per il vino, bisogna saper valutare attentamente il profilo del vino rosso, che si svela a poco a poco durante la degustazione, dal momento che un’analisi olfattiva prolungata equivale a un’anticipazione sul divenire del vino dopo più anni. Il degustatore, se opportunamente allenato, può catturare nel tempo i profumi secondo un ordine graduale. Alcune accademiche scuole di degustazione reputano la sequenza immutabile: frutti rossi, fiori rossi, champignon, sottobosco, foglie morte, humus, terriccio, animale, umami, decomposizione organica. Il carattere fruttato è di certo il più frequente nei vini rossi, una sensazione che talvolta risulta quasi aromatica, capace di indicare con precisione un frutto particolare e un successivo equilibrio tra morbidezze e durezze. Un vino poco fresco e poco vivace evocherà un frutto che ha perso la sua freschezza; il vino ottenuto dalla stessa uva, ma con un’acidità più elevata, farà apparire un frutto più giovane e fragrante, dal gusto più vivace. Un fattore chiave è quindi la maturità. Per convincersi sarebbe sufficiente assaggiare un acino d’uva a diversi stadi di maturazione. Man mano che l’acino matura la sensazione di fruttato aumenta, creando un matrimonio tra zuccheri e acidi che si armonizza, producendo una crescente complessità aromatica. Lo zucchero è un elemento fondamentale per l’espressione odorosa (sia dei vini bianchi sia di quelli rossi); infatti, i vini che hanno trattenuto lo zucchero naturale dell’uva esprimeranno con più frequenza e facilità un’intensità olfattiva maggiore rispetto a quelli completamente secchi. Il profumo di lampone, assai diffuso, caratterizza il vino nella fase giovanile e nasce con la fermentazione alcolica. Si riconosce nei vini ottenuti da uve di pinot nero e cabernet franc che hanno raggiunto un’ottima maturità. Anche il syrah, il cinsault, e soprattutto il gamay vinificato attraverso la macerazione carbonica, ricordano il lampone, come pure il Brachetto con residuo zuccherino. La fragola, un po’ meno frequente, è un profumo secondario derivante dalla fermentazione malolattica. Spesso in compagnia del ribes rosso, è associata a una maturità più avanzata. Distinguendo tra fragola e fragolina di bosco (acidula), quest’ultima è più fine e aromatica: così, se Pinot nero, Grignolino e Freisa si caratterizzano per la fragolina di bosco, Merlot, Cannonau e Nero d’Avola evidenziano maggiormente la fragola. Il ribes rosso, invece, non è indice di grande maturità del vino, e spesso compare quando le uve non hanno ricevuto molto sole. La ciliegia, o meglio le ciliegie, perché le varietà sono tante, sono una costante: la ciliegia durona fresca e saporita al gusto, la piccola ciliegia nera che può essere inquadrata tra i piccoli frutti a bacca nera, e ancora la marasca o l’amarena e la visciola. Il profumo di ciliegia, spesso associato a un sentore di nocciolo, nasce all’inizio della fermentazione malolattica e la dose alcolica lo accentua. La ciliegia può quindi esprimere un tono dolce o acido. Nebbiolo, Barbera e Sangiovese esibiscono il tono acido; Malbec, Syrah e il taglio bordolese quello dolce. La ciliegia dolce si ritrova anche nei vini rossi dolci, dal Porto al Banyuls, dal Maury all’Aleatico. Il cassis (ribes nero), al pari di altri frutti a bacca nera, si associa con facilità al tipo di uva usata, soprattutto quando la maturità del vino è avanzata. Curiosamente questa dominante fruttata è spesso presente nei vini prodotti da uve tanniche, per cui al palato ci si attende del tannino. In genere il cassis dà eleganza, è sempre associato ad altri frutti a bacca rossa e nera e procura ampiezza. Offre due note olfattive, una nuance vegetale di foglia di cassis, l’altra fruttata della bacca. Nero d’Avola, Syrah, Montepulciano, Cabernet sauvignon e Aglianico lo trattengono nel proprio bagaglio odoroso. Il profumo di mora, al pari di quello del mirtillo, è legato a una certa presenza di tannino. È più raro, ma è originale e di qualità, riconoscibile con facilità se si fa riferimento alla confettura di more. Si ritrova nei vini robusti e in quelli più deboli di corpo. Fa parte del corredo olfattivo di Syrah, Tannat (quando i grappoli sono maturi e la resa limitata), Carignano e Grenache noir, Sagrantino e Sangiovese grosso, Nebbiolo e Aglianico. Quando il profumo nella sfera fruttata della mora si fa meno rustico, meno selvatico della mora di rovo, l’accostamento vira verso la mora di gelso, indice di evoluzione del vino che si adegua al tono di morbidezza gustativa con un’idea di confettura e di gelatina. Qualora coabitino piccole bacche nere selvatiche, accompagnate da un che di vegetale, il vino avrà rusticità e mancherà di maturità ed equilibrio. La susina è più frequente in versione confettura, oppure secca (prugna) e sotto alcol; non è solitaria, ma si affianca spesso alla violetta appassita, al cassis, al cacao, al pepe nero e al fico rosso. L’evoluzione del fruttato va dal fresco al cotto, fermo restando il colore di partenza della bacca, quindi quel cotto di confettura rossa lascerà presagire meno antociani e polifenoli, quello scuro presenterà più polifenoli e antociani: non è solo la conseguenza di affinamento e magari di legno nuovo, nei climi caldi e molto caldi compare anche in gioventù, specialmente se sono state usate barrique nuove. Le prugne, secche, al vino e in confettura, appropriate nell’abitare lo spazio evolutivo, sono una peculiarità dei vini strutturati, concentrati, complessi, con dimensione tannica, come quelli ottenuti da cabernet sauvignon, sangiovese, corvina, syrah, aglianico, cannonau, primitivo, nebbiolo e montepulciano. Prugne secche, in confettura e bagnate in alcol sono frequenti nei vini rossi dolci liquorosi. Come già anticipato, la parte cotta del fruttato, oltre a essere propria dell’evoluzione, è presente nei vini ottenuti da uve maturate in climi molto caldi, quando in vigna gli acini scaldati dal sole rasentano l’odore di zucchero bruciato, e ciò può presentarsi nei vini del Sud di Francia, Spagna e Italia, oltre che in Napa Valley e in Australia. La frutta candita di solito si avverte tra la frutta fresca e quella cotta, con note che possono caratterizzare anche i grandi millesimi da lunga maturazione, però è molto rara e si associa con più facilità ai sentori di acini secchi, appassiti, di uva passa. A proposito della frutta secca, alcuni frutti rappresentano l’apice della qualità nell’evoluzione del profumo, come il fico secco o la nocciola, mentre la noce e la prugna secca, meno nobili, spesso indicano un’ossidazione e hanno necessità di integrarsi armonicamente alle altre componenti odorose per restare di qualità, a meno che non siano espressione di vini ottenuti da ossidazione controllata. Per quanto riguarda i frutti esotici e gli agrumi, i vini rossi hanno poco a che fare con litchi, frutto della passione, papaia e guaiava, che interessano maggiormente i vini bianchi. La banana invece può comparire sia nei vini bianchi sia nei rossi. Spicca nei vini novelli, in genere prodotti con gamay, soggetti a vinificazione con macerazione carbonica e impiego di lieviti aromatici; si riscontra nei vini rosati “tecnologici” e in tanti novelli italiani. Il profumo di banana è espressione della fermentazione e non ha nulla a che vedere con il vitigno. Gli agrumi sono piuttosto rari nel vino rosso: da ago in un pagliaio il limone e il pompelmo, più frequente l’arancia rossa. Il floreale non ha un impatto decisivo nei vini rossi, ma ne completa finemente il quadro olfattivo. La violetta è la più auspicata, perché conseguenza di una maturazione dell’acino avvenuta nell’equilibrio di una stagione soleggiata, prospettiva di elaborazione di un vino di qualità; uno spunto di viola nel vino è come incassare una pacca sulla spalla in segno di augurio. Quella violetta si proietterà nell’evoluzione per saldarsi con i sentori terziari di humus e animale. Si dice della violetta che sia un profumo che si incontra strada facendo, resiste fino all’appassimento, e non seccandosi scomparirà. Molti sono i vitigni che la custodiscono e la cedono a condizione che la maturazione sia stata ottimale: sangiovese, syrah, cabernet, teroldego, nerello mascalese e piedirosso, lambrusco di Sorbara, marzemino. Anche il pinot nero, però a Vosne-Romanée e a Chambolle-Musigny, più che in Alsazia, in Germania o nella “calda Italia”; nel pinot nero della Valle d’Aosta non è infrequente. La rosa, quella rossa, è tutta Barbera, Nebbiolo e Freisa; la rosa tea è Moscato rosa. Il glicine regala un tono floreale al Syrah e al Pinot nero. L’aumentato riscaldamento degli ultimi decenni e lo stile strutturale dominato dall’alcol fanno risaltare in certi vini, dopo qualche anno di affinamento, la nota di lavanda secca: Nerello mascalese e cappuccio, Gaglioppo, Nero d’Avola, Zinfandel e Cannonau la trattengono con più frequenza. In genere il tono floreale del vino rosso è meno prorompente rispetto al bianco e al rosato, ma la sua presenza è imprescindibile in un vino dalla personalità complessa. La proiezione vegetale del profumo si muove attraverso canoni differenti e presenta un’importanza maggiore nei vini bianchi. Già il vitigno può caratterizzarsi per sentori vegetali/erbacei, che spiccheranno maggiormente nella fase giovanile del vino, tanto da determinare anche disturbi olfattivi qualora sia stato ottenuto da uve non perfettamente mature. Alcuni vitigni semiaromatici sono in grado di manifestare con relativa facilità aspetti odorosi erbacei. In generale, il Cabernet franc è erbaceo anche nel sapore e perde tale caratteristica dopo due o tre anni, se le uve erano ben mature; pure il Cabernet sauvignon ha una variabilità erbacea che andrà estinguendosi nel tempo, se sono state impiegate uve giunte a perfetta maturazione. Il carmenère ha un tono decisamente erbaceo, che può trasformarsi con la maturità (sempre a patto che le uve fossero mature), tanto da offrire stuzzicanti note di pepe verde e spezie. La menta piperita e il tono di mentolo danno personalità elegante al bouquet, lo rendono vibrante e lo distaccano da invadenti monotonie fruttate; la piperita è un habitué dei grandi rossi del Bordeaux, soprattutto della riva sinistra, il mentolo caratterizza i grandi rossi nella maturità: Bordeaux, Barolo, Rodano, Amarone, Borgogna e Cannonau lo hanno nel pedigree. Il peperone verde è un tipico sentore prefermentativo. In caso di vendemmia fresca, la sua presenza complica il quadro: se manca il fruttato, perde di finezza e non è improbabile che lasci una scia amarognola nel finale di bocca. È appannaggio del cabernet sauvignon e franc, dalla riva sinistra del Bordeaux alla Loira, dove il cabernet franc prende il nome di breton. Molto vicina ai toni olfattivi della garrigue è la resina di pino, che quando è ben coesa nel bouquet conferisce balsamicità e ampiezza. È un sentore da clima caldo, molto caldo o secco, nel qual caso avrà anche tono di corteccia di pino, oppure di pineta seccatasi nella canicola, comunque i vini non mancheranno di tannino. Alcuni esempi: malbec argentino, aglianico e cabernet franc. Anche in qualche territorio viticolo italiano dominato dal cabernet sauvignon si avverte il peperone verde, come a Bolgheri. Per essere prezioso, deve presentarsi in punta di piedi. Altra costola erbacea del profumo è quella codificata con il termine grassy, un generico erbaceo, che può ritrovarsi nei vari cabernet e affini, nel merlot e nel malbec, nel refosco e nel bovale, nel fumin e nel petit verdot; incrocio Manzoni 2.15 e incrocio Terzi n. 1 lo possono presentare. Discorso diverso quando l’erba (grassy) si secca e diventa fieno: in questo caso il vino sarà evoluto, avrà gradazione alcolica alta e si presuppone nel vigneto un clima caldo. Un esempio: il primitivo. Diverso è l’aspetto olfattivo delle erbe aromatiche secche, chiamate in Francia garrigue. Peculiare di climi caldi e secchi, si presenta nella media evoluzione del vino. In Italia è facile riscontrarla nei vini ottenuti da cannonau, gaglioppo, nero d’Avola, aglianico e primitivo. Molti sono i vitigni che possono creare vini capaci di acquisire queste espressioni terziare: tutto il taglio bordolese, il pinot noir della Côte d’Or e del Central Otago, il tempranillo nella Rioja e la grenache nello Châteauneuf-du-Pape. In Italia lo offrono il Barbaresco, il Barolo, il Gattinara, il Valtellina, il Brunello di Montalcino, il Taurasi, l’Aglianico del Vulture e l’Amarone: chiaramente se e quando maturi. In genere, il sottobosco e i suoi affini derivano da vitigni “nobili” che hanno resistito alla maturazione, e che custodiscono tutte le potenzialità per raggiungere l’armonia. Un aiuto in finezza è dato dall’allevamento in barrique e dalla rifinitura in vetro. Il tono odoroso della felce, assai particolare, risulta difficile da isolare, perché ama mischiarsi a cenni di sottobosco, di lichene del legno e di humus. Lo si trova anche nei bianchi. Nei rossi è il profumo del potenziale di affinamento, frequentissimo nel Pinot noir di Borgogna, però da vigneti grand cru, e si affaccia dopo cinque/sette anni di sosta in bottiglia. Rimanendo nella frescura boschiva, il sottobosco è un aroma terziario, parte finale dell’evoluzione del vino: dà complessità quando crea una prospettiva olfattiva in cui si sovrappongono i sentori primari (poco), secondari e terziari (non invadenti). Hanno affinità con il sottobosco a base di foglie secche il boisé, le foglie in decomposizione e il tartufo, qualche fiore appassito, la felce e i funghi, la frutta secca (mandorla, noce) e l’animale (pelliccia e selvaggina). Questo corredo olfattivo non deve mai essere troppo intenso, perché può virare verso la muffa e diventare poco gradevole. La sfera che ricorda l’animale, cioè cacciagione, selvaggina (pelliccia), carne marinata nel vino, carne grigliata, è di origine fenolica e si genera con fenomeni di ossidoriduzione e/o riduzione. Si collega al colore rosso che imbrunisce, quindi i vini devono avere sostanza da vendere nell’evoluzione, qualche esempio: Rioja, Ribera del Duero, Bordeaux, Syrah australiani, Rodano da syrah e da grenache, Taurasi, Aglianico del Vulture, Brunello di Montalcino, giusto per citare i più rintracciabili. Per quanto riguarda la parte speziata, tostata e minerale, il discorso verte su aspetti diversi dalla naturalità ampelografica. Lo speziato generalmente è il riflesso dell’uso di legno nuovo. Il minerale è, nel rosso, oggetto di contrasti concettuali. Appurato che il suolo e il sottosuolo poco hanno a che fare con la mineralità, appurato che per la sua delicata personalità il minerale resta soffocato dal legno nuovo, dalle spezie e dalla maturità del frutto, i casi in cui è riconoscibile senza ombra di dubbio sono rari nel rosso, molto più facile nei bianchi. Certe note di ruggine di ferro, di argilla rossa, di calcare si rilevano quando il maturo dello stato evolutivo inizia ad accarezzare il vecchio. Il tostato (talvolta bruciato) è dovuto in parte alla maturità della vendemmia, e in modo decisivo ai tannini del frutto e della barrique. I primi segnali appariranno sotto forma di fumé, carne affumicata e fumo di tabacco; seguiranno note di arrosto, cotte su fuoco e/o grigliate. L’aroma del pane arrostito è uno tra i più caratteristici sentori e indica l’impiego di una barrique con tostatura spinta, ma è possibile riscontrare anche cenni odorosi che associano il caramello alle note bruciate (carne arrostita o cotta alla griglia). Questi profumi si avvertono in genere nei grandi vini rossi allevati in legno (quasi sempre barrique) dopo molti anni d’affinamento. Catrame e legno bruciato si manifestano soprattutto nei vini rossi meridionali, ottenuti principalmente da syrah e mourvedre, da aglianico e nero d’Avola, da primitivo o in un Brindisi Rosso Riserva da negroamaro e malvasia nera. Da soli risultano troppo austeri, danno un’idea di appesantimento, invece associati a frutti a bacca nera e a selvaggina formano la tipicità del bouquet. Infine, le note più raffinate, quelle di torrefazione, caffè, cacao e cioccolato fondente, danno forza e razza ai vini vecchi. Tralasciando tutto lo speziato da barrique nuove e legno americano, vale la pena soffermarsi su due espressioni olfattive molto frequenti: liquirizia e pepe nero. La liquirizia (accentuata dalla barrique nuova) riveste un ruolo particolare, perché espressione di un coinvolgimento boisé, speziato e vegetale: può evocare una rotella di liquirizia gommosa o il bastoncino della radice. Non ama la solitudine, ma si intreccia a menta, anice stellato, violetta, caramello e frutti come la mora e la prugna secca. Spesso si identifica più facilmente per via retronasale, e si associa con una struttura gusto-olfattiva morbida e pseudodolce da alcol. In ultimo, il pepe nero, quello appena macinato. La sua personalità si sdoppia nel vino perché ci sono lo stadio odoroso e quello piccante e dolce al gusto. Il passaggio in barrique può creare questa sensazione dovuta all’azione dei tannini. Alcuni vitigni sono in grado di fornire al vino aromi pepati, soprattutto nelle annate calde: syrah, aglianico, primitivo, sagrantino, nero d’Avola, gaglioppo e tannat. Il pepe nero dà sensazione di ardore al palato per combinazione di alcol e tannini, spesso è preceduto da un fruttato a bacca scura e darà seguito a cuoio e tartufo nero, offrendo prospettive di complessità olfattiva e strutturale al vino. “L’odore si spinge fino alle sorgenti della vita”: così affermava lo studioso J. Nogué, collegandosi al mondo aromatico del neonato che condensa tutto l’aroma emanato dalla madre. Per il sommelier l’odore spinge fino alle sorgenti del vino.