“Ma davvero non credi nell’esistenza dell’Alta Cucina?” Ogni volta che mi incontra in un pubblico consesso, mi rivolge l’identica domanda, con tono di curiale rimprovero. Mi ricorda il proselitismo da citofono della domenica mattina. Si tratta, invece, della fissazione di una collega baciata da una certa notorietà. Una di quelle anime pie e caritatevoli che non sanno mai negarsi all’invito di uno chef o al gran gala di uno sponsor. Che cuore d’oro. Nel suo universo fideistico, io rappresento una variabile marziana e irremissibile. Sento che un giorno mi affronterà brandendo un santino di Massimo Bottura: “Bacialo e convertiti, infedele!”.
Nel frattempo, ho rinunciato a sottoporle il mio punto di vista, nella certezza che rimarrebbe inascoltato. Siccome aborro il turpiloquio, le rispondo con una mezza risata o con un grugnito intero, a seconda dell’umore che mi abita in quel frangente.
A voi, però, posso dire ciò che penso laicamente dell’Alta Cucina: essa non esiste.
Non è niente di più che uno slogan di comodo, originato da esigenze di marketing più o meno consapevoli. E se riecheggia definizioni riferite alle corti del regno di Francia, non guadagna un centimetro di verità.
All’epoca, occorreva misurare la distanza tra la cucina dei villici e quella dei nobili. Oggi, invece, usiamo quelle due parolette a beneficio di una corrente gastronomica ben definita, nata e cresciuta negli ultimi tre lustri, su per giù. La parentela più stretta nell’arco temporale è quella con la “nouvelle cuisine” degli anni Ottanta. In questo caso, però, c’è un significativo scarto semantico.
L’inganno, rispetto ad analoghe etichette, sta nel fatto che qui si incorpora un giudizio valoriale apodittico. Se diciamo “Alta Cucina”, insomma, certifichiamo l’idea di una catena gerarchica che premia uno stile a prescindere dai suoi esiti.