la grappa non ruta più
Bruna Odoardi

Con l’inarrestabile ascesa al rango di distillato puro e raffinato, la natura popolare della grappa è ormai quasi estinta, e con essa gli inseparabili compagni aromatici, in primis la ruta.

C’era una volta la grappa alla ruta. Color verde pisello, era ricercata per la nota vegetale, le proprietà digestive e il piacevole aroma che dirozzava il ruvido distillato di vinacce. “La ruta”, recita un proverbio salentino, “ogni mmale stuta”. La grappa alla ruta, a dir la verità, c’è ancora, ma è in ritirata su tutti i fronti, come l’esercito italiano dopo Caporetto. Sparita da bar, wine shop, enoteche e ristoranti, la verdolina con le foglie della pianta officinale in infusione resiste sul Piave di arcaiche trattorie di campagna, in qualche fiaschetteria, nella dispensa di vecchi innamorati. Ormai è nelle retrovie del mercato dei liquori, sempre più aggredita da limoncelli, anime nere e dalla snobistica grappa alla pera williams, acquavite da doposci. Non cede le armi, ma è in attesa di congedo definitivo. La sua guerra è finita e persa. La grappa non ruta più. 

Paolo Monelli ne sarebbe contento. Il grande giornalista e scrittore, savio cultore del vino, che celebrò la grappa (“divina graspa”, la chiamava), nel libro O.P. ossia il vero Bevitore, dopo un intero capitolo di lodi alla liquida eroina, Bradamante dei liquori, puntualizzò: “Vi è chi usa mettere nella bottiglia un ramoscello di ruta, ma non è usanza che approvi, come non consiglio di bere quella profumata di ginepro o di genziana; pregio essenziale di questa acquavite è l’essere pretta e nuda, senza gusti accessori, senza sdolcinature”. Sosteneva che la grappa non era una bevanda cara ai raffinati, che le preferivano l’aristocratico cognac, “non dico che richieda gole che abbiano respirato venti d’uragano, ma vuole serietà d’intenti e perfetta salute”.