medioevo inaspettato Fabio Rizzari Una delle mie fissazioni, degna forse di miglior causa, è provare a smontare i luoghi comuni. Nel mondo del vino non ce ne facciamo mancare quasi nessuno, ma anche fuori del nostro piccolo orto se ne alimentano centinaia. Nella musica la convinzione di molti è che qualcosa di divertente succeda soltanto nel Novecento. Prima ci sarebbe stata unicamente una successione di secoli noiosi, dove i musicisti si prendevano troppo sul serio o comunque morivano come mosche giovanissimi. Se questo pregiudizio riguarda il barocco, il classicismo, il tardo Ottocento, figuriamoci cosa può pensare l’ascoltatore medio della musica medievale: una palla di fango indigesta dalla quale fuggire a gambe levate. Medioevo uguale nenie keniote da chiesa, lugubri cori di monaci, rumori gracchianti di qualche strumento arcaico, più simile a una grattugia che a qualcosa che produca suoni piacevoli. Cripte, buio, peste bubbonica, gente che si lavava due volte nella vita, cibi avariati, finestre di carta, freddo implacabile, predicatori religiosi invasati. Certo, anche assenza di telefoni cellulari, il che è forse un vantaggio sufficiente da solo a controbilanciare tutti i problemi citati. Anche in questo caso le cose stanno molto diversamente. Pure senza internet, iPhone e discoteche, le persone erano capaci di divertirsi. Di più: erano capaci di scelte e atteggiamenti che a noi, a distanza di quasi mille anni, sembrano sorprendentemente moderni e familiari. Credete che le avanguardie libere, in aperta rottura con gli schemi della società, bohémien, iconoclaste, ironiche quanto i dadaisti o i surrealisti, siano esclusivo appannaggio della nostra epoca? Errore grave. Anche nel Medioevo, guarda un po’, non mancava la percezione della modernità, e di più: la sua deformazione dissacratoria. Negli anni ’60 e ’70 del 1300 si formò in Francia una confraternita di musicisti che si definiva fumeurs, fumatori. “Essere in un fumo” era la condizione per scrivere musica, vedersi, suonare, esprimere la loro visione della società. Vi fa venire in mente gli scantinati degli esistenzialisti parigini? O un gruppo di che ascolta musica mentre si passa cannoni da quaranta centimetri? Non siamo in effetti troppo lontani. Erano piuttosto autoironici, come testimonia il testo di questo rondeau: rasta reggae Fumeux fume par fumée Fumeuse speculacion (sic) Qu’antre fummet sa pensée Fumeux fume par fumée Fumo nebbioso da una fumata speculazione fumosa I pensieri di chi fuma sono fumo nebbioso A distanza di tanti secoli la loro musica ci suona magari bizzarra, aliena sulle prime, ma poi diviene via via più comunicativa. Ricca di dissonanze e cromatismi, esprimeva bene la voglia di stupire, di liberarsi delle maglie strette dell’ . Per la prima volta nella storia della musica occidentale gli urti tra note considerate prima inaccostabili entrano nel pieno diritto compositivo dei musicisti. La dissonanza non è più un errore, non è più sottomessa gerarchicamente agli accordi naturali perfetti, ma un mezzo espressivo usato consapevolmente. Di nuovo, come nell’idea di modernità. ars antiqua Il poeta Eugène Deschamps (circa 1346-1406), che si autodefinisce con fierezza (cancelliere dei fumatori) descrive i più sottilmente, facendoci capire che il non è ispirazione per il componimento poetico e musicale – in un percorso per così dire dall’esterno all’interno – ma piuttosto il prodotto di una : una sostanza viene ingerita e provoca , cioè . E qual è questa sostanza, prima fra tutte le altre? Il vino, ovviamente. “Il poeta consuma il vino, poi consuma se stesso, al fine di creare liriche” (S. Jensen-Moulton, , 2015). Dechamps descrive il in primo luogo come “irascibile ma creativo amante del vino, le cui stranezze vengono amplificate dalla presenza di altri fumeurs”. chancellier des fumeux fumeurs fumo metabolizzazione fumi di aria calda il canto The Oxford handbook of music and disability studies fumeur Di nuovo e sempre il vino, quindi. Nel lungo periodo definito medievale la vigna e il vino erano centrali nella vita delle comunità. I vigneti erano piantati disordinatamente ( ) e ospitavano varietà diverse, oppure arrivavano a contenere decine di migliaia di piante per ettaro (incredibile, ma vero). La vinificazione era veloce e approssimativa. Se ne otteneva un vino instabile, destinato a essere bevuto molto rapidamente. Conservarlo anche solo un anno o due era raro e frutto di circostanze favorevoli fortuite. Come sintetizza Hugh Johnson, “più il vino veniva dal nord (e quindi era più debole), più era importante berlo entro poco tempo”. en foule I vini erano aromatizzati in mille maniere, dalle tecniche ereditate dall’antichità classica (erbe, sostanze dolci) a quelle più bizzarre (come il vino “alla lingua di manzo” per curare i pazzi). Un’ulteriore conferma della insospettabile modernità del Medioevo viene dalle parole del trattato (“Il cristiano”, 1384) del religioso catalano Francesc Eiximenis. Nella terza parte del testo lo scrittore critica gli italiani per la loro attitudine indagatoria verso il vino: “Quando bevono lo fanno poco a poco e in piccola quantità, esaminando e riesaminando il vino come fanno i medici con le urine, e lo assaggiano ripetutamente, masticandolo lentamente fra i denti finché lo hanno bevuto tutto”. Lo Crestià Vi fa venire in mente qualcosa?