Con la sua generosa e dilagante massa radiosa ha saziato stomaci e confortato animi di intere generazioni. La polenta non è soltanto cibo, è memoria allo stato solido e peso specifico del sentimento comune.
caldo sole d'inverno
Morello Pecchioli
“Se il mare fosse tocio / e i monti de polenta / o mamma che tociade / o mamma che tociade. / Se il mare fosse tocio / e i monti de polenta / o mamma che tociade / polenta e bacalà.” L’antica e popolare canzone istriana La mula de Parenzo, diffusasi con varianti locali nel Triveneto e sulle coste adriatiche dell’impero austriaco, è diventata, di bocca in bocca, di coro in coro, il manifesto degli affamati di tutto il mondo, l’invito ai mangiatori dell’umile impasto di farina gialla a unirsi al riscatto dalle catene della fame: “Polentoni di tutto il mondo, unitevi”.
Che cosa sono, infatti, il mare che diventa intingolo di stoccafisso e i massicci montuosi che si trasformano in compatta polenta, se non il desiderio e la proiezione del paese di cuccagna? La catarsi che libera il proletariato dello stomaco dalle angosce dell’inedia? L’umile polenta, madre Teresa di Calcutta dei cibi, ha svolto questa funzione per secoli, da sola, senza il sostegno di alcun compolentatico, riempiendo lo stomaco e ogni altra cavità dell’apparato digerente della misera gente. Mandandola a letto sventurata come prima, ma sazia, ingozzata di sode fette gialle e dell’illusione di essersi sfamata.