“Mettendo da parte la mia modestia, ma sotto l’usbergo del mio rasposo carattere piemontese, devo asserire che di vini me ne intendo, e domandando scusa ai miei Barbera e Barolo, devo dire che il Taurasi è il loro fratello maggiore.”
Una frase di questo tipo potrebbe essere archiviata semplicemente come l’omaggio di un appassionato degustatore piemontese nei confronti del nobile vino irpino, se non fosse che a pronunciarla, nel 1932, fu l’onorevole Arturo Marescalchi. Emiliano di origine, si sentiva piemontese a tutti gli effetti, avendo trascorso nel Monferrato la maggior parte della sua vita e della sua attività professionale in qualità di enologo e agronomo. Questa circostanza fa mutare parecchio lo scenario, poiché stiamo parlando di uno dei padri dell’enologia moderna italiana, una persona rigorosa e poco incline alla piaggeria o al facile entusiasmo che in quel momento ricopriva l’incarico di Sottosegretario del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste.
Il nome del vino trae origine dalla cittadina dove tuttora è particolarmente fiorente l’attività vitivinicola, denominata Taurasia dai Romani e da questi, in perenne disaccordo con le popolazioni locali, completamente rasa al suolo nel 268 a.C. Tra il 181 e il 180 a.C. fu deportata qui e in tutto l’ager Taurasinus (gli attuali Campi Taurasini) una comunità di Liguri-Apuani, popolazione di stirpe celtica avvezza alla coltivazione dei campi, che ebbe il merito di mantenere il sistema di allevamento della vite cosiddetta “greca”. Nel 42 a.C. il territorio fu definitivamente assegnato, come tributo di gratitudine e riconoscenza, ai soldati romani veterani della battaglia di Filippi in Macedonia, i quali continuarono la coltivazione della vitis ellenica importata dai luoghi dei combattimenti. Anche Tito Livio nel suo Ab urbe condita cita “Taurasia dalle vigne opime” quale fornitrice di vino di eccellenza per l’impero.