rosso lambrusco Maura Gigatti Alla corte dell’Olimpo, dove gli dei amavano godere momenti di convivialità, il Lambrusco, per qualche curiosa ragione, pare fosse un vino conosciuto. Si racconta che durante la guerra tra modenesi e bolognesi, Marte, Venere e Bacco, per aiutare i primi a sconfiggere il nemico, presero la biga aerea in direzione Modena. Un vento improvviso e dispettoso li fece atterrare a Solara, vicino a Bonporto, lontano dalla città, proprio davanti a un’osteria. Stanchi del viaggio, e soprattutto assetati, entrarono e Bacco ordinò del vino buono. L’oste chiese se lo gradisse dolce, ma il dio rispose: “Io l’amo brusco!”. Venere non apprezzò la sua scelta, ma non disse nulla. Prese dalla borsa un’ampollina e versò nel bicchiere qualche goccia di ambrosia. Il vino iniziò a gorgogliare e si formò una generosa schiuma rossa ravvivata dalle bollicine. È così che nacque il vino frizzante. Passando dalla mitologia alla storia, verso la fine dell’XI secolo, la contessa Matilde di Canossa, alleata alla Chiesa, si trovò a combattere contro Enrico IV, in un duello che contrapponeva l’autorità della Chiesa all’Impero. La scomunica papale indusse Enrico IV a presentarsi al castello matildico e qui, dove il papa era ospite, trascorse tre giorni e tre notti inginocchiato con il capo cosparso di cenere, davanti al portone d’ingresso, per ottenere il perdono che arrivò, al termine della penitenza, materializzato in un calice ristoratore di Lambrusco offerto da Matilde. Le lotte continuarono per lunghi anni, con battaglie che portarono vittorie e sconfitte, tra ubriachezze degli uni e degli altri. Era il Lambrusco a decidere il vincitore; chi se ne inebriava facilmente era sconfitto. Giosuè Carducci, che a Modena amava pranzare alla trattoria Diciotto Colonne, dove l’oste Grosoli gli riservava un tavolo, due fette di zampone e del Lambrusco, raccontò in una lettera all’amico editore Zanichelli della rottura di “troppe bottiglie di Lambrusco” durante il trasporto verso la sua dimora. Un vino prezioso andato perduto! Bevanda briosa, effervescente, da bere allegramente in compagnia, come accadeva alla Trattoria dell’Artigliere, l’osteria di Cleto Chiarli, affollata da così tanti clienti da sembrare un esercito pronto alla battaglia. E fu proprio Cleto Chiarli il primo a credere nella qualità del suo vino, fondando con moglie e figli la prima azienda vitivinicola di Lambrusco. Nella bottiglia di vetro, il Lambrusco subì un cambiamento epocale: le numerose osterie offrivano vino dal sapore ruspante, spesso da loro prodotto, e quello munito di bottiglia ed etichetta. I clienti assaggiavano la nuova annata per stabilire se era buona o cattiva e quale oste avesse il vino migliore. Con l’avvento delle prime cantine che vendevano il vino in damigiane o bottiglie, iniziò il declino delle osterie, e la “povva” (la “bambola”, l’intontimento dato dall’alcol), la “sémmia” e la “bala” (l’ubriacatura) persero il loro fascino. Nel 1900 Cleto Chiarli vinse all’Esposizione universale di Parigi la prestigiosa “Mention Honorable” per la qualità del vino, per la bottiglia, l’etichetta e il tappo di sughero legato a spago. Si aprì la strada a nuove aziende per la vendita di Lambrusco, ma portò alla prima crisi dovuta alla sovrapproduzione di uva e pochi sbocchi commerciali. Nacquero così le cooperative sociali (attualmente ancora vitali), per tutelare i produttori, definire i prezzi e creare canali di vendita mirati. La Cantina Sociale di Carpi, fondata da Alfredo Molinari nel 1903, la Cantina Sociale di Nonantola, avviata da Gino Friedmann nel 1913, e la Cantina Sociale di Sorbara nel 1923 furono le più rappresentative e riuscirono a sopravvivere persino alle due guerre mondiali e alla fillossera. Esistono sessanta cloni di lambrusco, ma sono sei quelli più utilizzati: di Sorbara, Grasparossa, Salamino, Marani, Maestri, Montericco, ognuno dotato di proprie peculiarità, condizioni pedoclimatiche, terroir, una storia intimamente intrecciata a quella porzione di terra emiliana in cui affonda, da sempre, le radici. Lambrusco di Sorbara L’omonimo vino, definito nell’Ottocento “lo Spumante italiano”, nel 1970 merita il riconoscimento della Doc che prende il nome Lambrusco di Sorbara. Oggi è il clone più versatile della famiglia. Grazie alla spiccata acidità che lo contraddistingue, si adatta bene al metodo ancestrale, alla spumantizzazione e alla rifermentazione in bottiglia con sosta sui lieviti minimo di 18 mesi. Presenta colori tenui se coltivato nella zona d’origine, l’area tra il fiume Secchia e il Panaro, dal fondo sciolto, sabbioso, ricco di potassio; ha una veste cromatica più intensa se coltivato su fondi argillosi. L’aroma che lo caratterizza è la florealità della viola e della rosa, accompagnate da ricordi di mirtillo e frutti rossi. Lambrusco Salamino A nord di Modena, tra Santacroce e Carpi, e nella pianura di Reggio Emilia, precisamente a Correggio, è diffuso il Salamino di Santacroce (altra Doc del 1970). Di grande vigoria, questo vitigno predilige terreni fertili con sistemi di allevamento Gdc, sylvoz, casarsa, adatti alle vendemmie meccaniche. Ideale nella produzione di vino Novello e interessante nel metodo ancestrale, mostra carattere deciso nella versione Metodo Classico. I vini sono caratterizzati dal colore intenso e pragmatico che si esprime con tonalità violacee. Le componenti aromatiche si fondono nelle sfumature di lampone, seguite da ciliegia e mora, con una lieve nuance di rosa. Lambrusco Grasparossa Nella zona pedecollinare e collinare modenese predomina il Grasparossa (Doc omonima riconosciuta nel 1970), le cui caratteristiche si distaccano dalla famiglia dei vini allegri, giocosi, per essere associate più a un vino rosso. Il colore intenso, compatto, quasi impenetrabile, ricco di malvidina, regala sfumature fruttate succose, con la mandorla sul finale. In bocca, l’avvolgenza e la ricchezza tannica forniscono struttura al vino. Lambrusco Marani A nord-est della provincia di Reggio Emilia, il clone Marani è il protagonista delle Doc Lambrusco Reggiano (1996) e Lambrusco Colli di Scandiano e Canossa (1976). Questo clone presenta elevata vigoria e produttività, ed è utilizzato in assemblaggio con altri lambruschi essendo dotato di minor spessore e tannicità. Profumi fruttati di ribes e marasca impreziositi da cenni di viola sono le doti dei vini, connotati anche da una lieve tannicità. Lambrusco Montericco Coltivato nella collina reggiana di Albinea, il vitigno noto come Selvatica di Montericco si ritiene sia autoctono dell’omonimo comune. Come il Sorbara, soffre di acinellatura e la conseguente scarsa maturazione ne condiziona il colore dei vini, che si presentano con tonalità tendenti al cerasuolo. Gradevole freschezza e media struttura rivelano un vino beverino e adatto a molti abbinamenti. Lambrusco Maestri Originario di Villa Maestri, frazione San Pancrazio della provincia di Parma, il Lambrusco Maestri rivela la sua impronta varietale nella Doc Colli di Parma, datata 1982, e in assemblaggio nella Doc Lambrusco Mantovano del 1987. Vitigno difficilmente domabile, predilige le zone meno fertili di collina. Il vino dalla veste rubino presenta sfumature intense violacee, sentori di ciliegia, piccoli frutti di bosco, viola appena raccolta. Tannino deciso, quasi scomposto. Lambrusco Viadanese Del Mantovano è il Lambrusco Viadanese (le ricerche delle origini sembrano condurre al comune di Viadana), localmente chiamato Groppello Ruberti. Sporadicamente è presente anche nella pianura reggiana. Vitigno dal carattere irruente, propone tonalità rubino compatto tendenti al violaceo. Il profilo olfattivo si caratterizza per la presenza di note di amarena con un sottofondo speziato. Varietà e vini, inizialmente considerati di poco valore, raccontano un intreccio di evoluzioni. Nell’immediato dopoguerra il Lambrusco è riuscito a diventare un’icona: i produttori hanno creduto in questo vitigno, e il vino è riuscito a farsi spazio, non soltanto nel mercato italiano, ma anche all’estero. Diversi sono gli stili di vinificazione. La sua origine è nata con il metodo ancestrale, metodo in cui la fermentazione si arrestava per l’abbassamento della temperatura invernale e riprendeva durante la primavera. Una tradizione che per lungo tempo è stata tramandata e che oggi continua la sua storia. Nel 1895 Federico Martinotti, direttore per l’Istituto Sperimentale Enologia di Asti, inventò e brevettò il metodo della rifermentazione controllata in grandi recipienti, adottato nel 1910 da Eugène Charmat che costruì tale attrezzatura. L’azienda di Cleto Chiarli fu la prima in Emilia a introdurre questo sistema di vinificazione, nel 1959, seguita da altre realtà aziendali che hanno deciso di continuare la tradizione, adottando nel contempo nuove metodologie di presa di spuma. Tecnica molto utilizzata, permette una lunga sosta nel contenitore, diventando Charmat lungo. Oggi, i produttori di Lambrusco stanno valorizzando la versatilità di questo vino nelle sue diverse tipologie. Molti di loro hanno intrapreso viaggi in Champagne, interpretando così un linguaggio diverso nei propri vini. Nasce la versione Metodo Classico, in cui le bottiglie sostano sui lieviti alcuni mesi sulle pupitre prima della sboccatura. Ne risulta uno spumante brioso, dai colori brillanti ravvivati dalle numerose e fini catenelle di bollicine che si elevano persistenti. Note delicate di lievito e profumi riconducibili alle varietà si muovono sinuosamente nel calice, regalando al sorso freschezza e bevibilità. Il Lambrusco, paragonato al vino della tradizione, si pone con caratteristiche moderne. Le aziende guardano al futuro ricercando la qualità, rinnovando i vigneti, puntando alle riduzioni per ettaro, apportando investimenti tecnologici in fase di vinificazione e migliorie che garantiscano integrità e sapori di un tempo. La beva “gioiosa”, il moderato tenore alcolico e il gusto sbarazzino di una spremuta di piccoli frutti rossi lo discostano dall’omologazione dei vini internazionali. La pulizia e la purezza di gusto raggiunte con le innovazioni in cantina lo hanno catapultato nella sfera di attenzione dei millennials e staccato dalla tradizionalità dell’abbinamento con i gusti della cucina emiliana, la cui sostanza grassa si scioglie armoniosamente nella fusione frizzante e fresca del Lambrusco. È nei nuovi gusti della cucina modernizzata che il Lambrusco sta vincendo la sua sfida, non più stivali e vanga, e cibi sostanziosi per risanare le fatiche della giornata nei campi, ma luci soffuse nei bistrot della modernità, per gusti pieni di contrasti anche etnici, con un’alternanza tra vecchio e nuovo: dalla trippa alla fiorentina ai dumpling ripieni di carne di maiale, dalla pizza con cipolla di Tropea e ’nduja all’anatra laccata alla pechinese, dalle polpette alla pizzaiola all’okonomiyaki in agrodolce, dall’omelette al prosciutto al vegan burger. Molti dei nuovi gusti che le tendenze culinarie dei giovani chef stanno definendo vanno incontro a vini dalla beva semplice. Attenzione, però, semplice non significa banale: come dimenticarsi l’esperienza del Lambrusco sorseggiato con l’anguilla che risale il Po e i canali di Modena di uno chef “sconosciuto” come Massimo Bottura? Il Lambrusco va. Lasciamo che i nuovi gusti lo incontrino, il successo sarà assicurato.