panettone ogni stagione Valerio M. Visintin Se il panettone fosse soltanto un dolce, non staremmo qui a parlarne. In dicembre entreremmo in pasticceria e non sapremmo – intimamente, intensamente – che Natale è alle porte. Mentre a San Biagio ci romperemmo le gengive su dei tocchi di pane secco. Eppure, c’è chi propugna l’idea di sfornare panettoni tutto l’anno. Anzi, per la verità, qualcuno ha già avviato tale pratica. E me ne rammarico, sebbene si tratti di casi sporadici. Eccezioni che, per ora, confermano la regola. Il panettone tutto l’anno, però, è un ritornello che risuona insistente da un lustro o poco più. Non è lontano il tempo in cui questa tentazione farà breccia nella fragile coscienza delle nostre tradizioni. È facile prevederlo. Badate che non sto sollevando la questione per una sorta di conservatorismo parareligioso. E nemmeno per protezionismo culturale, che sarebbe pratica insana oltre che anacronistica. Rilevo, piuttosto, una frattura emotiva. Siamo alla globalizzazione dei calendari per supremi fini mercantili. Navighiamo verso la frantumazione di una liturgia pagana ma commovente, sociale non meno che gastronomica. Lamentiamocene con misura. Ma non sottovalutiamone la portata. “No, Valerio. Non sono d’accordo: io penso che andrebbe venduto tutto l’anno”, mi dice sempre Stanislao Porzio. Sommo esperto del settore, Porzio è autore di libri e di manifestazioni oceaniche sul panettone. Ma è nato a Napoli, tra vicoli e mare, tra sfogliatelle e pastiere; distante con gli occhi e col pensiero dalle nostre giornate di puro cemento. Come faccio a spiegargli che il panettone non è un dolce, per noi milanesi? Che non è nemmeno un alimento o una ricetta. Come gli racconto di questo appuntamento che si rinnova con una porzione di noi stessi? Sin da bambino, riconobbi una fiabesca e segreta amicizia col panettone. Ai tempi, si tifava per il Motta o l’Alemagna, come fossero Inter o Milan, Merckx o Gimondi. Io ero per l’Inter, per Merckx e per Motta; forse perché era anche il nome di un altro ciclista, compagno di squadra del cannibale belga. Il Motta, dunque, aveva una sua precisa collocazione in attesa degli infiniti pranzi di Natale. Stava a terra, ai piedi dell’albero scintillante di palle colorate. Era il guardiano di quell’albero di Natale. Era il nume tutelare delle nostre feste e la firma in calce a ogni tavolata con i parenti accorsi per l’occasione. Prima di tagliarlo a fette e distribuirlo come un sacerdote, mio padre lo appoggiava per qualche minuto sopra al calorifero per ridestarne gli umori. Mentre mia madre, con la scatola di cartone, alta e azzurrina, mi ritagliava un elmo. Molti anni più tardi, il panettone mi accompagnò in treno sino a Roma, al primo incontro ufficiale con i genitori di una mia morosa dai grandi occhi color uvetta. Lo avevo acquistato in pasticceria, perché nel frattempo le industrie avevano dilapidato la loro credibilità, conquistata a colpi di caroselli televisivi e propaganda sociale. Lo consegnai solennemente. E con la dovuta ammirazione fu accolto, poiché si trattava del panettone di Milano. Mostravo, con quel dono, le mie credenziali, che esponevo tronfio d’orgoglio e di ingenuità: non abbiamo San Pietro, il Foro e il Colosseo, signori, ma abbiamo un cuore grande e, a Natale, abbiamo il panettone. Fossi stato d’altre parti, avrei condotto i frutti della mia terra o qualche rustico dolce casalingo. Ma Milano non ha altra materia prima che il suo impeto produttivo. E il panettone, complesso e irripetibile tra le mura domestiche, ne sintetizza la vocazione naturale. Purché resti nel perimetro ordinato e rituale delle feste natalizie, ovviamente. L’amico Porzio mi comunica che il panettone ha preso piede ovunque: “È diventato un banco di prova, una sorta di sfida per i pasticcieri di tutta Italia”. Tutta Italia? Ebbene, sì. Pasticcieri che hanno meritato e raccolto premi e riconoscimenti ufficiali superando persino i campioni di casa nostra. E dunque? Niente. Il processo di alienazione è in fase di avanzamento. In un giorno non lontano il panettone diventerà, infine, un dolce e basta. Un dolce come altri, eccellente per ogni circostanza e per ogni latitudine, abdicando alla sua natura simbolica e alla sua circoscrizione temporale. Quando accadrà, ne prenderò dolorosamente atto. E, per dispetto, comincerò a mangiare soltanto pandoro.