un re immortale Mariano Francesconi Quasi all’inizio della cittadina di Szerencs, segnano l’ingresso nell’area della denominazione le due “torri” costruite in pietra e legno, alte diciotto metri, simbolo del riconoscimento della superficie viticola e delle cantine di questa terra patrimonio mondiale dell’umanità. Già si intravedono le prime vigne sulle pendici del monte Árpád, caro alla leggendaria storia magiara. Proseguendo sulla E 37, fino a non molti anni fa incubo e sfida, specie notturna, per ogni automobilista, sulla sinistra, ecco il bacino di Mád, Rátka e Tállya, antiche terre vulcaniche, e lo scorcio di alcuni dei dűlok (vigneti) più prestigiosi. A destra il profilo inconfondibile del monte di Tokaj, ai cui piedi si scorge il villaggio di Tarcal: siamo nel cuore della denominazione, e proseguendo verso nord la presenza della vigna ci accompagna, sotto la cornice delle foreste di querce che ricoprono gli Zemplén, fino al confine con la Slovacchia, terra un tempo ungherese e persa a seguito del primo conflitto mondiale. In questa direzione e prima della deviazione per la deliziosa cittadina di Sárospatak, in passato culla della cultura eletta a dimora dalla dinastia dei principi Ráckóczi, la segnaletica apre la strada verso il villaggio di Tolcsva e i suoi bei vigneti, alcuni dei quali definiti di prima classe, pari a dei Grands Crus, ben un secolo prima delle classificazioni francesi. Qualche centinaio di metri e la semplicità un tempo nobile di questo villaggio crea un leggero contrasto con l’innovativa e ampia struttura della cantina di Oremus, posizionata sul lato sinistro della vallata, attraversando la quale, e inoltrandosi nei boschi, è possibile raggiungere Makkoshotyka e Háromhuta, villaggi fin dal Settecento sedi di importanti vetrerie destinate allora alla produzione di bottiglie per il vino di Tokaj. Quando negli anni ’90 l’Ungheria decise di liberalizzare e vendere buona parte delle proprietà statali, il governo affidò a un giovane enologo, András Bacsó, il compito di gestire la denazionalizzazione. Con lungimiranza e per limitare le speculazioni, András suddivise in blocchi le numerose tenute e relative cantine situate nei più importanti villaggi, cercando in sede internazionale aziende o gruppi interessati all’acquisto. Fu in questo contesto che avviò trattative con la famiglia Alvarez, una delle più importanti realtà imprenditoriali di Spagna, proprietaria tra l’altro della storica e rinomata Bodegas riberana Vega Sicilia. Acquisita nel 1993 la proprietà, gli Alvarez affidarono proprio a Bacsó l’incarico di gestire e dirigere la tenuta, avviando anche la ristrutturazione dei manufatti esistenti e la costruzione delle nuove cantine di vinificazione e lavorazione. Gli ambiziosi progetti hanno creato una delle strutture più moderne e di maggior fascino del territorio. Oggi il complesso aziendale si estende su due ettari caratterizzati dall’ampio parco verdeggiante, con secolari alberi dove spesso dimorano gufi, picchio verde e picchio rosso maggiore. L’accoglienza è fatta in una delle cinque Kúrie presenti nel villaggio. Il nome identifica un particolare stile di costruzione, aristocratico e classico, risalente all’inizio del XVIII secolo. Si accede attraverso il bel salone, adornato da un’imponente libreria, sede di rappresentanza e di eventi organizzati, attraversato il quale, e risalendo il parco, si giunge alla cantina di vinificazione, costruita nel 1999 su tre piani, con l’obiettivo di sfruttare il principio a caduta nella lavorazione dei vini e per diversificare la produzione legata ai 100 ettari coltivati, sui 121 di proprietà. Il più settentrionale tra tutti questi è il vigneto Oremus, il cui nome è stato a lungo legato alla leggendaria nascita degli Aszú di Tokaj, e che identifica la denominazione aziendale. Su un substrato di ryolite e spherulite ci sono rocce leggere che si riscaldano facilmente al sole riflettendo la luce e garantendo un ottimo drenaggio. La parte più consistente delle vigne è sita però attorno all’abitato di Tolcsva dove, sul crinale di destra, torreggia una di quelle più singolari: Petrács. Vecchi ceppi di furmint allevati con il tradizionale bakművelés e lavorabili manualmente o con l’unico ausilio, almeno nel dissodo primaverile, del cavallo. Visto da lontano, questo cru all’imbrunire si tinge curiosamente di grigio-violetto per la particolare composizione dei suoli, poche decine di centimetri di terra argillosa su rocce di diaspri silicei mescolati a idro-quarziti, andesiti e piroxiandesiti. Non esistendo irrigazione nelle annate siccitose le viti soffrono, ma i vini ottenuti sono potenti e avvolgenti. Molto diverso l’altro versante, quello che a sud dell’abitato si sviluppa fino a Erdőbénye e dove Oremus possiede gran parte della sua superficie con bellissimi ed estesi vigneti, alcuni dei quali riconosciuti di prima classe: Gyopáros, Ciróka, Mandulás, Kútpatka, Szentvér e Budaházy. La composizione dei suoli su questo lato è più omogenea, con una roccia madre riolitica e in superficie strati di colate laviche effusive e piroclastiche, disgregatesi poi, per azione dell’acqua, in particelle ancora più sottili contenenti anche dell’ossidiana. Interprete e protagonista è il vitigno furmint, di grande personalità, sia negli storici Aszú, sia nelle più recenti versioni secche, capace come pochi altri di mediare e raccontare le diverse sfumature micro-pedologiche di queste ricche terre vulcaniche, la cui affascinante dissomiglianza è individuabile nella varietà cromatica di superficie. La sua presenza, e non solo per Oremus, sarà sempre più significativa grazie anche a un insieme di appezzamenti, qui per un totale di due ettari, dedicati al lavoro di selezione e sperimentazione clonale arrivato oggi solo a metà del suo percorso. Il corredo varietale aziendale contempla poi tutti i vitigni autorizzati con un 15% sia di hárslevelű sia di zéta, un 6% di kövérszőlő, un 5% di sárgamuskotály e infine góhér e kabar per un 2% ciascuno. La lavorazione dei vini Aszú richiede particolare impegno e attenzione cominciando dalla manodopera in vendemmia, essendo necessarie tra le ottanta e le cento persone a ettaro, più del doppio di quelle impiegate nella raccolta dei grappoli interi. Anche le rese dei vini Aszú sono bassissime, in questi ultimi anni tra i 4 e i 6 ettolitri a ettaro. Dopo la cernita, in più passaggi, dei singoli acini asciugati dalla botrite e conservati in vasche d’acciaio, i grappoli posti manualmente in piccole cassette sono vagliati su un triplice banco di cernita, a seconda della tipologia di vino a cui sono destinati: base degli Aszú o vendemmie tardive. In questo modo ogni giorno si lavorano al massimo otto/diecimila kg di uve. È molto importante la capacità di valutare e decidere a cosa finalizzare quello che arriva, dato che può anche non corrispondere a ciò che si è visto in campo. Fino alla vendemmia 2000 András ha effettuato molte prove e, se all’inizio utilizzava per la macerazione i rotovinificatori, oggi gli acini aszú sono immersi nel mosto in fermentazione anche per tre giorni, fino a quando si gonfiano; fatti poi sgrondare attraverso una grata, si procede con una attenta pressatura. La botrite metabolizza la parete cellulare dell’epicarpo rendendola fragile; ciò condiziona l’estrazione che va effettuata delicatamente, per evitare la fuoriuscita di sostanze fenoliche che darebbero amaro, preservando in tal modo l’eleganza; la prima pressatura, più “sporca”, e le successive seguono quindi due percorsi differenti. Rispetto ai vini secchi, nell’Aszú la gestione della fermentazione è particolare in primo luogo per la notevole presenza zuccherina, ma anche per quella di sostanze prodotte dal fungo, inibenti l’attività dei saccaromiceti. Per questo può durare anche cinque o sei settimane. Ad Oremus viene condotta, in parte in legno, in parte in acciaio, con percentuali variabili di anno in anno, scelta fatta anche in base alla concentrazione glucidica. Il legno con la sua porosità favorisce lo sviluppo di alcuni lieviti resistenti alla pressione osmotica. Questi sono frutto di selezioni attuate con lo scopo non solo di avere maggiore resistenza a lavorare in un habitat così stressante e con presenza via via maggiore di alcol, ma anche per incrementare la formazione di aromi e limitare lo sviluppo di acidità volatile. Per far sì che il percorso si svolga in modo ottimale ed evitare problemi legati al freddo, questa fase va seguita con attenzione, sostenendo i lieviti nel bisogno vitaminico o riscaldando l’ambiente. Quando si è nel momento finale, e la fermentazione rallenta, viene abbassata la temperatura per fermare l’attività dei saccaromiceti, evitando altre, negative, deviazioni. Nella vita di un Aszú questa è una fase basilare dove è necessario, cessata la protezione dell’anidride carbonica, mantenere inalterabilità proteica e di molte altre sostanze essenziali nell’evoluzione dello stesso vino. Dopo un breve periodo di stabilizzazione, normalmente a gennaio e solo qui con l’aggiunta di anidride solforosa, il vino inizia la sua maturazione per almeno due anni in botti colme, dove la micro ossigenazione ne favorisce lo sviluppo. Queste, di secondo passaggio, sono esclusivamente di rovere ungherese proveniente dagli Zemplén, scelto e di alta qualità. I travasi, effettuati ogni 4/6 mesi per togliere la feccia, facilitano la sedimentazione e la stabilizzazione, coadiuvati dai tannini nobili contenuti nel legno i quali, sciogliendosi nel vino, si combinano con le proteine dello stesso, agevolandone la pulizia. Requisiti fondamentali sono il tempo, la pazienza, la costanza di temperatura e soprattutto l’igiene. La maturazione dei vini Aszú è condotta esclusivamente nelle storiche, profonde, cantine scavate nella collina di Tolcsva. Quattro chilometri di affascinanti gallerie sviluppate su tre livelli, utilizzate per il 70 per cento e in parte sempre rinnovate con investimenti onerosi di ristrutturazione. In questa suggestiva atmosfera ovattata, raccolta e umida, riposano botti e bottiglie. Da qui provengono anche i vini degustati, conservati in condizioni igrometriche e di temperatura ottimali. Un Tokaji Aszú, seppur non sempre prodotto, possiede grande longevità anche nelle versioni meno altisonanti. Impiega una decina di anni circa, se di annata importante anche quindici, per entrare nella fase di quell’iniziale maturità che permette solo di intuire il suo futuro, prima di aprirsi al decennale, quasi infinito, percorso della sua grande espressività. È per questo vino, infatti, che Luigi XIV coniò la celebre frase, poi abusata: “Vinum regum, rex vinorum”. In degustazione territorialità e azione della botrite portano a riconoscimenti olfattivi costanti, qui indicati solo se in particolare evidenza. 2013 Paglia matura di media fittezza, lucente. Naso raccolto per un vino che arriverà sul mercato solo dopo il 2020. Presente, ma elegante, la botrite su spezie fresche, pepe bianco e rafano, limone e zenzero, frutta esotica, passion fruit, latte di cocco, pesca bianca profumata, polpa di pera, erbe aromatiche, timo, maggiorana e limoncella, fiori di tiglio, caprifoglio e ginestra; ancora delicato ma vivace. Al palato la piacevole e raffinata acidità lo rende cremoso e ben equilibrato. Esprime bene il millesimo caratterizzato da una straordinaria, incredibile, quantità di acini aszú con la presenza di botrite sviluppata su un frutto già in buona maturità. Questo ha portato a vini estremamente gradevoli, immediati e che risulteranno godibili per molto tempo. 2008 Colore dell’oro pallido, luminoso. D’impatto leggermente ferroso e con direzioni agrumate amare, pompelmo e scorze. Poi si addolcisce: fiore di sambuco appassito, camomilla e crosta di pane, zucchero filato, crema pasticciera, burro di cacao, melone bianco d’inverno, fico d’India, cannella, mais tostato, cera d’api. A seguire eucalipto, garrigue, fiori di lavanda, curcuma. S’incupisce leggermente nel ricordo di legno suberificato. Bocca dalla dolcezza avvolgente con un finale briosamente sapido e lievemente amaro. Annata con un autunno simile alla precedente ma con una botrite leggermente più polverosa. Un vino al momento non molto espressivo, più lento a evolvere, quasi “sedentario”, la freschezza emerge in ritorno, un po’ slegata. Avrà bisogno di tempo per acquisire la sua appagante classicità. 2007 Oro antico, ramato e brillante. Apre con profumi dolci di pasticceria, crema vanigliata, paste lievitate e frolle, albicocca molto matura, mandorla amara, cotognata, pesca melba, tostature dolci, caramella mou, orzo caramellato, castagne glassate, torrone e torta Dobos, terre sulfuree e licheni essiccati. Il passaggio sul palato è di delicata pastosità e maschera più di altri la freschezza, risultando anche meno variegato. Annata calda segnata durante l’estate da lunghi periodi siccitosi con temperature che hanno raggiunto anche i 38 °C per una decina di giorni: difficile quindi mantenere un buon equilibrio se non, come in questo caso, privilegiando l’eleganza e non la concentrazione. 2006 Oro caldo luminosissimo, denso, di fascino. Pistillo di zafferano, elegante e non invadente, pesca e ananas, propoli e miele, mandarino candito, burro fuso, pera Williams sciroppata, banana, vaniglia, foglie di mentuccia essiccata, aghi di conifera, pepe rosa, mandorla bianca, tartufo. Estremamente giovane ma appagante, come altre espressioni di questo considerevole millesimo, è nel momento in cui un Aszú è molto raccolto, leggermente chiuso e meno espressivo. La bocca è importante per una rimarchevole ed elegante versione, dalla potente e vibrante acidità, oltre 12 g/l, a sostenere un gusto ricco e interminabile che mette in evidenza il ricordo, lontano, della neve in bocca. Uno dei migliori e da conservare a lungo in cantina. 2005 Oro ramato con sfumature aranciate. Si coglie, dapprima, una leggera riduzione, poi acqua di fiori d’arancio e agrumi canditi; più intensamente confettura di rabarbaro, bardana essiccata, miele di castagno, caramello e mostarde. Infusi di erbe, cuoio, uva surmatura. Da otto anni in bottiglia, sta entrando ora nella fase della prima maturità. È un Aszú frutto di un’annata classica per il territorio, caratterizzata da un’estate fresca con buone precipitazioni, e una maturazione lenta delle uve che ha preservato l’acidità, una delle più sostenute in questa degustazione. Qui ancora scontrosa e citrina, diviene suggello di grande pulizia nel finale di bocca. Permetterà a queste bottiglie di affrontare con autorevolezza una lunga evoluzione, rendendosi via via sempre più interessanti. 2003 Ambra leggermente scura, vivace. Albicocca disidratata e pesca, miele e caramello, spezie dolci, cannella e radice di liquirizia, pasta di mandorle, frutta candita, tabacco, rovere, latte condensato, caramella mou, cialde alle nocciole, il tutto stuzzicato da leggero cardamomo e paprica dolce. Uno dei più ricchi in zucchero, mediterraneo, comunque bilanciato da una buona acidità che lo ravviva nel finale. Gradevole. Un millesimo facile da apprezzare anche per chi non ama particolarmente le verticalità di questo territorio, ora e in un prossimo futuro. 2002 Ambra brillante. Singolare alternanza tra sentori dolci, aspri e particolari. Frutta tropicale lavorata, ananas caramellato, mela di Boskoop, succo di pompelmo, lampone non maturo, visciole, resina, ginepro, polvere da sparo, lilium, camelia, poi nocciola verde, erbe forti essiccate, crema al limone, zenzero candito, ma anche leggermente salmastro con un ricordo di foglie macerate. È scorrevole, stretto, nervoso, più asciutto nel centro bocca, dove lievemente fa trasparire un rilievo amaricante, con un finale che richiama, anche qui, l’assaggio della neve, lungo e citrino. La piacevolezza, legata anche alla particolarità, che si coglie nell’incontro singolo si offusca leggermente nella sequenza, specie tra due millesimi così solari; è il frutto di una vendemmia in cui la pioggia, dopo le prime, ottimali, settimane di settembre, ne ha ridimensionato il risultato. 2000 Topazio denso e brillante. Ecco il succo di acini d’uva appassiti, un sentore questo che ricorre, talvolta, nelle degustazioni del millesimo. Polpa matura di mela rossa Stark e nespole, gelatine di frutta, tabacco dolce da pipa, dattero fresco, crema pasticciera, fresia, sabbia al sole, pinoli, con nitido fondo speziato da legno. Pieno, dolce e morbido. La piacevolezza sta nel concedersi un sorso ampio, coglierne l’avvolgenza, aspettando che la pur ricca acidità si metta in evidenza e, in aspirazione, ritrovarne equilibrio, vivacità, pienezza. Una delle annate più solari degli ultimi decenni, qui in una versione gradevolmente riuscita. 1999 Birtokválogatás. Ambra fitta, aranciata e resa viva dai riflessi dell’oro, con glicerica densità. Dapprima raccolto, va ad aprirsi via via, svelando un naso elegante, maturo ma vivo, classico; botrite con la dominante dell’albicocca disidratata e le scorze d’agrumi candite, a seguire le spezie, curry e cannella, fiori di lavanda e di erica, foglie di verbena, per poi lasciare strada al tè e agli infusi di erbe orientali, a miele di castagno, funghi, cotognata, cioccolato al latte, pasta di mandorle e zucchero caramellato; tabacco e fumo nobile. Ancora sentori vulcanici e iodati. Il sorso è ricco, dolce d’impatto ma equilibrato, succoso e di grande godibilità, personalità e beva. L’acidità energica, quasi un po’ mordace, vivacemente sferza gli zuccheri, donando incredibile pulizia e rinforzando il ritorno aromatico, che diviene sempre più incisivo in uno straordinario allungo. Sarà garanzia per decenni di evoluzione di questo brillante vino. Frutto di una particolare selezione all’interno della tenuta, non è ancora in grado di svelare tutto il suo potenziale e spessore. Emerge la forza del terroir, come in altre importanti versioni di questa straordinaria vendemmia, nella quale la botrite ha plasmato vini di particolare temperamento e longevità. Diverrà immenso nel tempo. 1995 Ambra vivacissima, appena sfumata di topazio. Come spesso succede, qui e altrove, le annate “minori” riservano nel tempo sorprese affascinanti. Ecco allora, dopo più di vent’anni, le singolari leggiadre direzioni. Croccante frutta rossa e bacche scure di bosco, ciliegia zuccherata, confettura di fragoline selvatiche, succo di corniole, cranberry, petali di rosa Meilland e violetta candita. Poi i sentori più classici, caramellatura di paste lievitate, zafferano, torta di nocciole, pesca in sciroppo, pasta di pistacchi, mentolato; pera Olivier de Serres, erbe aromatiche, con un accenno alla salvia ananas, probabile indizio della presenza di Sárgamuskotály. Chiude con una sfumatura di silice, mettendo sempre più in evidenza sentori aromatici e rossi. Un impatto meno potente del precedente, ma fresco, equilibrato, piacevolissimo e intrigante, lungo; difficile rinunciare all’assaggio. Godibile per molto tempo ancora. 1989 Ambra ricca, ramato-aranciata. Leggermente boisé, polvere di cacao, canditi, zafferano in cottura, zeste d’agrumi caramellate, tabacco bruno, crusca, fieno, radice di liquirizia, crema di cappuccino, caramello, miele di rododendro, calamo aromatico, fichi secchi, idrocarburi. Bocca delicata con percezione di minor dolcezza, acidità sottile e pulita; meno scorrevole e delicatamente astringente, tende a bloccarsi sul palato per riprendere poi vigore e guadagnare molto a distanza, divenendo più fruttato e rotondo, lungo. È uno dei migliori bicchieri vuoti e segna in questa degustazione l’anno del cambiamento, dallo stile del periodo socialista a quello moderno. 1981 Ambra vestita di mogano chiaro, luminoso e denso. Lo stile dei decenni passati: cantina di Tokaj, legno di cedro, morchelle e foglie secche, erbe amare, radice di tarassaco, sottobosco, leggermente selvatico, corteccia di pino, polpa di nespole, uva passa, tè nero, brace bagnata, miele di corbezzolo, panpepato, orzo bruciato. Terroso e più ossidativo nei sentori di nocciole tostate e albicocca. L’assaggio mette in evidenza un bell’equilibrio per un palato di carattere e persistenza, con un lungo ritorno di frutta essiccata, cioccolata modicana e polvere di liquirizia. Imbottigliato nell’aprile 1997 dopo una maturazione di quindici anni in legno, è stato ottenuto da uva naturalmente raccolta tardi, acini asciutti e piuttosto surmaturi, in passerillage, ma con viva acidità, anche per le rese di una raccolta abbondante. 1972 La veste è austera e ricorda il mogano sfumato di bruno, di bella lucentezza. Avvolgenti e scuri anche i sentori che via via si porgono al naso: dapprima caffè e torrefazioni, pregiati cacao forastero, balsami ed ebanisteria. Poi, con l’aerazione, la frutta secca e caramellata, il dattero e la carruba, la prugna disidratata e il mallo di noce maturo. Ancora la melata d’abete, il pain d’épices, i funghi secchi, le erbe officinali, l’infuso di assenzio, tutto avvolto da territoriali richiami, la terra vulcanica e la roccia bagnata, torba e salsedine, con tratti di farmacia e ceralacca. Dolce senza sbavature, articolato, con viva acidità che apre la strada ad altre emozioni, impregnando tutti i ricettori. Pieno e setoso, incredibilmente lungo, chiude con un tocco amarognolo di alta nobiltà. Bottiglia davvero straordinaria di questo 1972, più volte assaggiato in questi vent’anni. Anche se l’impostazione è quella del passato, con un invecchiamento in legno di 22 anni, e quindi non paragonabile agli Aszù prodotti oggi, questa mitica vendemmia dona al vino una regale ed emozionante espressione di longevità. 1956 Cacao scuro con tonalità mogano-rossastre. Torta di noci, cioccolato amaro, sentori di dattero, frutta secca, semi tostati, uva passa nel rum, succhi scuri, cotognata caramellata, castagne arrostite, tabacco, botrite evoluta, delicatamente selvatico, legno di noce bruciato, crema di legumi, cenere e fumo, terra umida, richiamo agli aromi inconfondibili delle cantine. Sorprendentemente ricco e intenso in bocca, elegante, morbido e setoso, fine e piacevole, con un finale che ricorda il tè nero e la polvere di caffè. Sparisce il dolce e rimane “frizzante” salivazione con aromi citrini di limone caramellato. Lunghissima la persistenza. Porta in sé il ricordo di un autunno triste: c’è chi ancora rammenta di aver dovuto offrire dell’uva ai soldati affinché spostassero i carri armati, fermi davanti alle case, permettendo quindi l’incantinamento… Frutto di vecchie vigne, queste bottiglie, ritappate nel 1990, garantiranno una bella tenuta per diversi decenni ancora. 1941 Béres Béla Cacao-bruno con riflessi ruggine. Il sentore etereo al naso è pronunciato, più facile pensare a un fortificato piuttosto che a una vendemmia da botrite. Bisogna ricordare che all’epoca era normale l’aggiunta di acquavite per interrompere la fermentazione, stabilizzare e conservare meglio aromi e dolcezza. Sfumature medicinali, liquore di arancia, mela ossidata, legumi cotti, caramello scuro, radici amare; l’albicocca, classico sentore, diviene qui un po’ bruciata. Al palato è quasi impercettibile la presenza dello zucchero e non rimane molto dell’oleosità glicerica; per questo l’esile struttura e il carattere asciutto non riescono a trattenere e smorzare un’acidità che si mostra via via più incisiva; mediamente amara la chiusura. Non manca certo di personalità, senza tradire le caratteristiche dei vini di Tokaj, pur non brillando in perfezione stilistica, e questo probabilmente fin dall’esordio; ma quanta storia d’uomini ha accompagnato questa bottiglia prodotta da un prete dell’epoca, dal cui lascito parte la collezione del museo di Tokaj. 1927 Ludmilla Schikedanz Mogano scuro e profondo, un po’ cupo. Al naso è forte la percezione volatile, acido acetico e soprattutto acetato di etile, catrame, distillato. Manca la concentrazione e la lunghezza data dalla perfezione; a distanza i ricettori si adeguano: andando oltre la pungenza, ecco apparire la lunga maturazione ossidativa, drupacee scure essiccate, humus, succo di liquirizia, pece; non tanto un vino, quanto un elegante, e interessante, aceto di prugne invecchiato; poi note lattiche di caseificio, pellame d’epoca, vecchie essenze legnose, non altro. Al gusto la dolcezza è appena accennata e si confonde in una chiusura che enfatizza sempre più la sensazione polverosa di soffitte abbandonate e stantie. 1918 Tokaji Bortermelők Társasága Rame antico di lucente vivacità, evidentemente mantenuto chiaro dalla fortificazione, sottolineata anche dal minuscolo tappo e dalla particolare forma della bottiglia, più da liquore. Colpisce uno sbuffo fresco, mentolato e balsamico, anice stellato, un leggero tocco di zenzero caramellato, erbe officinali in infusi e macerazioni, prugna sotto sciroppo, chinotto candito in alcol; seguono, più raccolti, sentori di cera d’api, floreali e di arancia amara. Il gusto in confronto con l’età è sorprendentemente giovanile, l’alcol ne ha chiaramente rallentato l’ossidazioneevoluzione; caldo in bocca, pulito e di buon equilibrio, un vino centenario e arzillo, gradevole ancora oggi. Da qui compare la dicitura Ausbruch per l’allora appartenenza dell’Ungheria all’Impero asburgico. 1884 Vághy Lajos K.U.K. La bottiglia è quella classica, attuale. Bruno con lievissima velatura. Il naso, variegato e attraente, apre leggermente etereo. Caffè tostato, spezie ed erbe medicinali, la crema del cappuccino, praline di cioccolato al rabarbaro, prugna essiccata, caramello, liquore di noci, solo sfumature di catrame, spezie. È il momento della fillossera e sono rimaste poche centinaia di ettari: le vigne sul löss o sulla quarzite danno avvolgenza e acidità raffinate. Al palato è sorprendente, ancora piacevole e di pregio. Dapprima la rotondità del miele scuro sciolto in bocca, poi delicata freschezza, potenza espressiva. Un finale incredibile, amplificato da un’importante evoluzione ossidativa che garantisce una lunghezza infinita, in un crescendo di carattere, fittezza e perfezione assoluta. Degustazione indimenticabile di un vino che dopo 130 vendemmie, prodotto nell’anno in cui il di Verdi faceva il suo debutto al Teatro alla Scala di Milano, è ancora integro, vivo e ricco di personalità, senza la minima concessione all’amaro, memorabile capolavoro. Annusando a distanza di mesi la stessa bottiglia vuota e non tappata, si coglie ancora un profumo inalterato, scuro e dolce: un paradiso di emozioni. Qui il Re dei Vini conquista lo scettro imperiale. Don Carlo 1876 Lorenz Reich Anche questa bottiglia è particolare, più slanciata e scura; come il successivo, questo Aszú era stato creato da un importatore, per il gusto inglese. Quello che definiremmo oggi un vino ruffiano ma fatto bene, vista la capacità di affrontare il tempo, pur con l’aiuto della fortificazione. Ambra bronzeo-bruna, visivamente densità spiritoglicerica più che zuccherina. Etereo e con un sorprendente richiamo al legno nuovo. La garbata volatile sostiene e ravviva l’olfazione: liquore di noci, ciliegie sotto canditura alcolica, rumtopf, richiama il bouquet di un nobile cognac affinato a lungo, malto, cioccolato al latte caramellato e sentori di bruciato. Forse un poco costruito, ma piacevole. L’assaggio è in linea, dapprima delicatamente dolce, poi carezzevolmente setoso, e in finale un sussurro pungente d’alcol. 1866 Lorenz Reich Ebano chiaro con iridescenze ambrate. Al naso offre sentori eterei, di solventi e di maturazione ossidativa, con evidente presenza di volatile. Rassomiglia al precedente ma è meno pulito e convincente. Rancio, rammenta acquaviti centenarie, esasperando però nella volatile, anche se, nel tempo, vuoi per assuefazione, vuoi per evoluzione nel bicchiere, si addolcisce su note di cioccolatini al liquore, pasta gianduia, caramello e noci, contrastate piacevolmente da tostati scuri, cenere, catrame. Non completamente dolce, potente con l’aiuto dell’alcol, si assaggia con devozione e stupore, 150 anni: l’Italia era appena nata…