il vino lo porto da casa Valerio M. Visintin Scrivere di vini senza averne i crediti morali e materiali è da incoscienti. Tanto peggio sulla rivista dell’Associazione Italiana Sommelier. Eppure, come uomo di penna e come bevitore, sento di dover correre il rischio. Questa volta, quindi, mi avventurerò a parlarvi di vini nei ristoranti. O, per meglio dire, tratterò delle cattive abitudini che i ristoratori hanno maturato su questo fronte. Cominciamo dai piani più bassi. Non dico dalle trattorie, fauna in estinzione, sopravvissuta soltanto in qualche plaga di campagna. Piuttosto, partiamo dal quel ceto minore della ristorazione sul quale poggia i piedi l’intero movimento. I vizi capitali maturati e incancrenitisi tra queste pareti sono, se non altro, fonte di divertimento. Il più diffuso riguarda certe liste che sembrano compilate in stato di ubriachezza, forse con l’intento di compenetrarsi più profondamente con la materia in oggetto. Si tratta di elenchini incorporati al fondo del menu. Giusto prima della copertina rigida in finto sky verde o marrone, tatuata con l’ombra di centomila impronte digitali. Barbera, chianti, sauvignon. O, peggio: bianco e rosso della casa (la casa di chi, poi?). Vi figurano soltanto voci generiche, insomma, senza alcun accenno al produttore o al territorio. Se, per errore o ghiribizzo del fato, all’estensore è sfuggito qualche accenno geografico, ha spesso l’aria di una burla. In una pizzeria di via Farini, a Milano, per esempio, era scritto: “vini del Coglio”. Per pudicizia, bevemmo birra. Non è raro, tuttavia, che la lista sia orale. Circostanza fastidiosa, perché non c’è tempo per riflettere. Né scorciatoia diplomatica per conoscere la spesa alla quale si va incontro. In questo caso, paradossalmente, c’è un fondo di buona volontà. Ma gli esiti sono caricaturali. “No no no, caro signore. Sono contrario alla carta dei vini.” “E perché?” La giustificazione si aggrappa a un lessico madido di luoghi comuni. Malintesi, ma convinti. “Cambio sempre. Vado in tour, degusto, seleziono, cernito. Prediligo piccoli produttori. Terroir, soprattutto, perché mio zio era del sud, ma mi piacciono anche del centro e del nord…” 84 Man mano che si risalgono i gradini nella scala sociale, la trama si semplifica. Diventa tutto prevedibile e, fatalmente, meno ilare. A Milano, il ceto medio della ristorazione si arrocca su una stretta gamma di scelte. Salvo lodevoli eccezioni, si rigirano gli stessi vini, le stesse case vinicole, le stesse etichette, come in un cronico déjà-vu. Nei ristoranti di ispirazione regionale, specialmente, desta impressione la ripetitività delle proposte. Ma quando ci si siede ai tavoli principeschi della cosiddetta alta cucina, il problema è l’eccesso di offerta. C’è la convinzione, anacronistica e provinciale, che un grande ristorante debba necessariamente disporre di un miliardo di etichette. Almeno sulla carta. Perché, alla prova dei fatti, può accadere qualche sorpresa. “È fortunato: è l’ultima bottiglia!” E dove starebbe la fortuna, visto che siamo in otto? “Lo abbiamo terminato. Vede l’asterisco?” Ah, ecco cos’è questo sterminio di puntini neri… “Ma pensi che cosa strana, erano mesi che non lo chiedeva nessuno e oggi lo hanno chiesto 137 clienti. Se viene domani lo trova.” Perfetto. Oggi mangio e domani bevo. Conta l’apparenza. Vince l’idea del superfluo. Del pletorico. Di una opulenza da smargiassi. È una gara di virilità enologica a causa della quale ti consegnano volumi da dieci chili, infittiti di righe e paragrafi come un romanzo russo. Ogni volta che giri una pagina, s’alza il vento e i commensali si spettinano. Per uscire dall’imbarazzo prima che sia ora di andare a casa, ci vorrebbe l’aiuto del sommelier. Ma a questa figura professionale, come ben sapete, è delegato un compito ad altissimo coefficiente di difficoltà. Aiutare, senza prevaricare. Suggerire, senza imporre. Leggere nel pensiero del cliente, evitando la tentazione di plagiarlo. Occorre un equilibrio da acrobata. Camminando in bilico tra forma e sostanza, il sommelier finisce spesso per abdicare, assumendo un ruolo neutro. Porta il librone. Prende la comanda. Stappa la bottiglia. Versa il vino. Stop. Azzera la propria funzione, quindi, omologandosi a un qualsiasi cameriere. D’altra parte, io preferisco sbagliare da solo, piuttosto che ritrovarmi sul conto un vino da mutuo bancario senza essere stato avvertito. E ogni qual volta ho avuto l’ardire di chiedere il prezzo di una bottiglia in un ristorante d’alto lignaggio, ho veduto volti trascolorare e respiri inciampare di sotto il papillon, come se avessi insultato i parenti più stretti. Un altro tappeto di spine è appunto il terreno dei prezzi. Anche nei ristoranti di media e bassa cilindrata, una bottiglia che stia sotto i 20 euro è un miraggio. A meno che non si tratti di una autentica ciofeca, da 4 euro al supermarket. Per non dire dei singoli calici, che costano più o meno come l’intera bottiglia dal grossista. In epoca di crisi e in un segmento commerciale sempre più affollato, afflitto e inflazionato come è la nostra ristorazione, potrà sopravvivere chi saprà vincere anche la guerra del vino. Proponendo prezzi umani e buona qualità. Rinunciando a speculazioni suicide. Stringendo un patto di lealtà e non belligeranza con la clientela. Mi spiace. Ma anche questo è un compito gravoso che spetta in larga parte all’esercito dei sommelier. Altrimenti? Sotto al tavolo di una pensioncina della costa veneta, mia nonna celava un fiasco di rosso. Pranzi e cene di quelle villeggiature estive erano intervallati da mescite furtive e da non meno frettolose sorsate. Forse i camerieri chiudevano un occhio o forse guardavano in cagnesco i miei parsimoniosi antenati. Forse mia madre, che ai tempi era una bimba, arrossiva di vergogna. Ma di fronte a certi prezzi, io che ormai ho l’età e la beata noncuranza degli anziani, sono tentato di replicare quel vezzo di famiglia. Almeno, avrò davvero il vino della casa.