Il Pantheon di grandi compositori nati nella penisola italiana è affollatissimo, e anche tenendosi a uno striminzito riassunto ne viene fuori quasi un elenco telefonico: Francesco Landini, Giulio Caccini, Emilio de’ Cavalieri, Carlo Gesualdo, Luca Marenzio, Claudio Monteverdi, Jacopo Peri, Giovanni Pierluigi da Palestrina, Arcangelo Corelli, Girolamo Frescobaldi, Alessandro Scarlatti, Domenico Scarlatti,Tomaso (sic) Albinoni, Luigi Cherubini, Benedetto Marcello, Antonio Vivaldi, Luigi Boccherini, Antonio Caldara (molto ammirato da Bach), Domenico Cimarosa, Pietro Domenico Paradisi, Vincenzo Bellini, Niccolò Paganini, Gaetano Donizetti, Gioacchino Rossini, Giuseppe Verdi, Pietro Mascagni, Giacomo Puccini, Luigi Nono, Luciano Berio, Ennio Morricone.
Eppure, con tanta ricchezza che attraversa i secoli, uno dei primi due o tre nomi che vengono citati da uno straniero, forse il primo stesso, è spesso quello di Giacomo Puccini. Il perché sulle prime non è chiarissimo. Probabilmente perché le sue opere sanno unire, a un’indubbia solidità strutturale, una capacità di affascinare anche l’ascoltatore più distratto per l’immediatezza delle linee melodiche. Ciò sposta l’attenzione su un piano di semplicità apparente, di facilità orecchiabile del testo musicale pucciniano; testo che è invece piuttosto complesso in lettura verticale. La bellezza quasi senza peso delle sue arie più famose lo riallaccia alla radicata tradizione italica della melodia, e del resto Puccini stesso ricorda a se stesso programmaticamente: “Contro tutto e contro tutti fare opera di melodia”.