paese che vai, tipicità che non trovi
AIS Staff Writer

Malgrado l’estate appena trascorsa sia stata classificata tra quelle più roventi degli ultimi due secoli, il caldo non ha impedito a milioni di connazionali di muoversi lungo la penisola. Non solo, il nostro paese è considerato, speriamo ancora a lungo, tra le mete turistiche meno turbolente, generando così un sensibile incremento di visitatori anche dall’estero.

Abbiamo visto traboccare di gente aeroporti, stazioni ferroviarie e aree di servizio lungo le autostrade, ossia i luoghi deputati ad accogliere chi viaggia. In vacanza i turisti sono più propensi alla spesa per il cibo: si possono concedere uno strappo alla regola, regalandosi qualche attenzione in più. Inoltre, hanno maggior tempo a disposizione e curiosità di nuove esperienze.

Eppure… Gli autogrill, e in generale i punti di ristoro di aeroporti e stazioni ferroviarie, dove fiumi di persone sono obbligate a transitare rapidamente o a fermarsi per ore, sono per lo più trappole insidiose: salvo rarissimi casi, l’offerta gastronomica è globalmente desolante, banale e standardizzata. Si potrà obiettare che i costi di gestione dei punti vendita sono alti, che questi servizi sono in mano a poche aziende, le quali, per incrementare i profitti, devono omologare il più possibile la proposta. Ignoriamo se i responsabili di queste società si siano mai messi in coda alle casse; di certo, ne sentirebbero delle belle e avrebbero molti interrogativi da porsi. Giusto per fare qualche esempio, all’interno dell’area partenze dell’aeroporto di Palermo se chiedi un’arancina o uno sfincione, per ricordare i bei momenti appena trascorsi, gli addetti scrollano la testa dispiaciuti, pur comprendendo la legittimità della richiesta; negli autogrill del centro-sud sono in gran voga i mondeghili, le tipiche polpettine milanesi, mentre sull’Autobrennero spopola un panino che porta lo stesso nome di un’isola della Campania. Per non parlare dei quattro milioni di pezzi venduti ogni anno di una focaccina tagliata a metà e farcita di prosciutto cotto e formaggio, che strizza l’occhio a uno splendido borgo marinaro della Liguria. Quando finalmente riesci a scorgere un semplice, invitante panino con il prosciutto crudo o con la mortadella, con tanto di blasone Dop o Igp, desiderano a tutti i costi scaldartelo. Se incautamente acconsenti, comprendi al primo morso il motivo di tanto zelo: il pane era gelato, in compenso il prosciutto crudo diventa immangiabile. Sulla qualità media dei prodotti enologici è meglio sorvolare. E del caffè possiamo tacere? Siamo celebrati come la patria del vero espresso, eppure berne uno appena decente è un’impresa titanica. A onor del vero, qualche catena uno sforzo verso tipicità e territorialità lo sta facendo, ma siamo ancora ben lontani da un modello accettabile e diffuso.

All’estero non stanno meglio di noi: in Francia abbiamo visto aree di sosta, appositamente realizzate per promuovere i prodotti tipici, chiuse la domenica; in Germania propagandare birre irlandesi; in Spagna dimenticare la secolare tradizione legata alla produzione di salumi e formaggi. Questo non ci può consolare in nome del “mal comune…” e men che meno ci può offrire l’alibi per abbassare la guardia, al contrario deve stimolare l’impegno di tutti per chiedere a gran voce un’inversione di rotta. Del resto, non abbiamo sempre detto che quando il turista è adeguatamente informato diventa il miglior ambasciatore del territorio? Non ci vantiamo di essere il paese con la miglior tradizione gastronomica del pianeta? Non ostentiamo il maggior numero di prodotti a denominazione protetta?

Senza invocare una deriva autarchica, un po’ di sano orgoglio non guasterebbe.