Taormina a congresso
Gherardo Fabretti

Ma subito trovò da esaltarsi di fronte al mare di Taormina. "Che mare! E dove c’è un mare così?"

"Sembra vino" disse Nenè.


Vale la pena cominciare così il nostro viaggio in Sicilia, luogo del prossimo Congresso nazionale AIS; tra il fervore della prima volta di un ingegnere di Vicenza e l’ostinata impressione di un bimbo agrigentino, protagonisti di un noto racconto di Leonardo Sciascia. Due righe per riassumere una storia iniziata tremila anni fa, coi pampini piantati da greci e fenici, con le navi gonfie di anfore, affondate dall’uzzolo di un dio esteta che il mare, come Nenè, lo preferiva tinto di porpora. O di rosso, come il magma che scivola discinto lungo i lombi dell’Etna, sulle cui ceneri fioriscono i vigneti del momento, e alla cui ombra si consumano gli ardori della gastronomia catanese.

È nelle cucine del monastero dei Benedettini, forse il più grande d’Europa, che si affina l’arte etnea del cucinare; una cucina che “era passata in proverbio”, come si racconta ne I Viceré di Federico De Roberto, tanto erano rinomati “il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse come un melone, le olive imbottite, i crespelli melati, piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare” e di cui oggi è possibile godere passeggiando lungo la via Etnea.

È questo il palcoscenico della città, monumento del tardo barocco, contegnoso per gusto, epidemico per necessità: martoriata, tra il 1669 e il 1693, da un’eruzione e da un terremoto, Catania, con ironico senso di rivalsa, ha affidato alla stessa lava devastatrice il compito di modellareuna nuova città.