l'anima bianca di Brolio Roberto Bellini Il casato nobiliare dei Ricasoli ha una storia intrisa di pura toscanità; le sue radici, assai antiche e potenti, affondano e germogliano nella storia della Toscana a partire dal IX secolo. Longobardi di origine, hanno assorbito il senso più alto e lo spirito più cristallino di ciò che significava vivere in una terra da sempre culturalmente edotta e con una generale inclinazione a vedere oltre le siepi e ascoltare i fruscii dei probabili antagonisti politici. Fu Rodolfo nell’XI secolo ad attribuire il nome alla casata, partendo da per giungere a de’ Firidolfi; i suoi discendenti presero il cognome Ricasoli dal nome di uno dei tanti castelli che possedevano, tra i vari che evocano odierni terroir vitivinicoli, come Panzano,Vertine, Meleto, Castagnoli e Tornano, per citarne alcuni, e chiudere infine con Broglio, l’odierno Castello di Brolio. Fu intorno alle terre selvose di questo possente fortilizio che i Ricasoli iniziarono a far vigna nel 1141, sottraendo spazi alle popolose zone di caccia, dove il clangore dei corni sembra ancora riecheggiare tra i boschi e le radure: così erano i monti del Chianti. Ricasoli-Chianti è un connubio inscindibile, il cui fulcro è rappresentato dalla figura del Barone Bettino, ma a ciò va aggiunto Brolio, per cui diventa un trinomio. de filiis Ridolphi Il Castello di Brolio fu per Bettino qualcosa che travalicava la sua monumentalità: in quell’edificio si riunivano sublimazioni emozionali e intellettuali, responsabilità politiche e riparo dai dolorosi eventi della vita. Ma fu soprattutto sperimentazione ampelografica ed enologica, un incessante e meticoloso tentativo di migliorare, aprendosi a riflessioni e pensieri da condividere con gli scienziati più illustri, confrontando senza timori le proprie esperienze in vigna e in cantina con i produttori più innovativi per raggiungere un solo scopo, il “vino perfetto”, un vino che in sé avesse il “sublime”. Il trinomio Ricasoli-Chianti-Brolio per il Barone di ferro doveva diventare il Vino con la V maiuscola, quello delle sue terre, dal suolo “tufaceo tendente in galestrino”:“l’esposizione è la maggior parte a mezzogiorno, la giacitura è alquanto in pendio”. Il 26 settembre 1872 nacque la sua triade enologica: sangioveto minimo 8/10, canajuolo e malvagia a completamento. Da quel giorno il nome di Bettino si legò indissolubilmente a un’idea di far vino che diventò il Chianti Classico d’oggi. A questo punto sarebbe facile dedicarsi alla celebrazione del sangioveto e del canajuolo ricasoliani, invece raccogliamo del vignaiolo Bettino la volontà di oltrepassare il consueto, di non fermarsi sull’acquisito e di addentrarsi nel senso della sua modernità. Abbandoniamo i rivoli vermigli e profumati del rosso di Brolio, per scoprire l’altra anima ricasoliana del vino, quello bianco. Bettino non cita, nel carteggio con il professor Cesare Studiati dell’Università di Pisa, la produzione di vino bianco, non sembra far parte della sua sfera enoica, e anche quando racconta gli esperimenti in vigna, i vitigni sono pinot, grenache e carignan, i cabernet e l’alicante, di bianchi non v’è traccia. Eppure a Brolio si faceva anche vino bianco, più dalla malvasia che dal trebbiano, quest’ultimo mai menzionato. Bettino Ricasoli descrisse la come elemento di fluida fusione nella formulazione enologica del rosso, “della quale si potrebbe fare a meno nei vini destinati all’invecchiamento, tende a diluire il prodotto delle prime due uve, ne accresce il sapore e lo rende più leggero e più prontamente adoperabile all’uso della tavola quotidiana”. Nonostante questo giudizio perentorio, la malvasia a Brolio non fu mai spiantata, ma quei tuoni e fulmini bettiniani con il trascorrere degli anni qualche effetto di rarificazione l’hanno prodotto. Va piuttosto segnalato quanto fosse precorritore dei tempi nel non impiegare uva bianca insieme alle rosse per produrre il Chianti Classico da invecchiamento: una decisione in tal senso è stata presa dopo centotrentaquattro anni. malvagia È mai possibile che un uomo così enologicamente illuminato, scrupoloso, coscienzioso e puntiglioso, pieno di un metodico perfezionismo enoico, si fosse lasciato scappare l’occasione di tentare un vino bianco senza quella ruvidezza acerba che certi autoctoni trattenevano a sé? La risposta è ovvia: certo che no! Arriviamo dunque al vino bianco del Castello di Brolio, etichettato Barone-Ricasoli, che si fregia della poetica e rimpianta dizione “vin bianco”. Una delle prime citazioni di questa produzione è fornita proprio dall’azienda in un manoscritto di presentazione dei vini in occasione del 7° Congresso Internazionale della Vite e del Vino, svoltosi nel Castello di Brolio il 19 settembre 1953.Tra i bianchi erano in bella mostra e in degustazione il Brolio Bianco delle annate 1895, 1925 e 1927, nonché l’Arbia del 1949 e il Torricella del 1934, 1935, 1937, 1941, 1943; tra i vini speciali spiccava un Brolio Vin Santo del 1816. La lettura delle annate proposte ci induce a ritenere che a Brolio si producessero vini bianchi secchi con potenzialità di resistenza all’affinamento molto sorprendenti per quell’epoca. Non sappiamo quale delle tre versioni in bianco fosse reputata la punta di diamante, però l’excursus storico ed enologico ci indirizza quasi forzatamente su un tipo, il Torricella. La nascita del Torricella è incerta, nemmeno il Barone Francesco Ricasoli, al timone dell’azienda dal 1993, si è sbilanciato; si sa però che Torricella è un toponimo del territorio e da quelle parti visse l’immeritato esilio il geniale Galileo Galilei. Il suolo non è completamente alberese, ma racchiude depositi marini; lì piantarono la vigna e un vitigno piuttosto diffuso era la malvasia bianca. La storia del Torricella si segmenta in due distinte fasi enologiche, quella dalla nascita al 1983, cui seguono dieci anni di vuoto, per ritornare nel 1993 completamente rivoluzionato rispetto al passato. Fino al 1983 il Torricella si otteneva con molta malvasia bianca e (forse) poco trebbiano; dopo la vinificazione sostava toscanamente quasi tre anni in botti di legno grande e tanti anni in vetro, nella mitica e straordinaria bottiglia “giallo bordolese”. Il nome rivisse nel 1993, ma la vigna non era più la solita, ormai adibita a sangiovese, bensì un appezzamento con molta arenaria nella parte alta e depositi fluviali in basso, dove si scelse di piantare lo chardonnay in alto e il sauvignon in basso. Anche lo stile produttivo era diverso, non più legni grandi ma barrique nuove, con diverse tostature e tonnellerie, di una sola matrice, la Francia. Dopo qualche anno l’azienda si interroga sul profilo organolettico del Torricella - il germe della sperimentazione bettiniana è ancora vivo nella memoria di Francesco Ricasoli e dei suoi collaboratori -, decidendo nel 2002 di porre fine al dominio del legno. Dall’anno successivo si passa dunque all’acciaio nella prima fase della vinificazione, con finale fermentativo in barrique e sulle fecce fini per attuare la rimessa in sospensione delle fecce. Anche questa esperienza enologica non resiste a lungo: sembra essere rinato davvero, in azienda, lo spirito di ricerca del Barone Bettino. Infatti, dal 2009 si gira ancora pagina. Per la prima volta è aggiunto un po’ di sauvignon blanc e al contempo diminuisce l’uso delle barrique nuove a favore di tonneau di 2° e 3° passaggio, allontanandosi definitivamente dallo stile boisé. Sembrava tutto concluso, invece la sperimentazione si rimette in marcia nel 2015. Lo chardonnay sosta per 9/10 mesi in legno usato, massimo di 3° passaggio; la malolattica è svolta in modo parziale solo nel vino passato in legno; il sauvignon invece conosce solo acciaio e poi va a fondersi nella cuvée dell’annata. Dal 2016 una nuova ricerca: mantenere il Torricella per più tempo in vetro. bâtonnage 2015 Brilla e brilla di lucentezza giallo limone con riflessi verdolini. Il profumo raccoglie un’equilibrante presenza speziata e uno spirito agrumato di pompelmo che richiama la fragranza del sauvignon (20% quest’anno). Il corredo olfattivo è reso elegante da nuance di magnolia, acacia e convolvolo. Il gusto ha molta energia sapida, con un fondo di acida freschezza; la liquidità della struttura è sottile, ma le sensazioni esplodono in un corpo ben cesellato e snello, tanto da lasciar evolvere la persistenza per lungo tempo. Dati analitici: alcol 13,13% vol.; acidità totale 5,9; pH 3,11; acidità volatile 0,39. 2013 Nuance cromatica dorata, con base giallo paglierino. Ottimo lo spunto olfattivo minerale, su fondo d’agrumi, miele, fiori gialli, pesca, in una fragranza che si accorda a una speziatura d’anice stellato e pepe bianco: ha ampiezza. Al palato miscela un volume sottile con fusione fresco-sapida, che toglie ogni effetto all’alcol, lasciando il compito di bilanciare le durezze al tono morbido del velluto glicerico. Il finale è di cristallinità salina, con ritorni olfattivi di ananas e timidi accenni di burro salato, quasi in un Montrachet style. Dati analitici: alcol 11,96% vol.; acidità totale 5,42; pH 3,12; acidità volatile 0,24. 2012 Brillanti riverberi paglierini, per una luccicante cromaticità che ammalia. Immediati riconoscimenti olfattivi di susina gialla, nespola, verdeggianti erbette mediterranee e paglia secca; la chiusura è addolcita da fiori di camomilla. La sapidità è straordinariamente efficace nel comporre il sapore, in cui anche l’acidità prende vigore; molto composto è il contributo dell’alcol, mentre la morbidezza si muove sinuosa tra le sensazioni gustative. Il finale di bocca scatta vigoroso, trascinando un’energia fruttata e floreale che richiede tempo per affievolirsi, e questi frangenti d’attesa sono molto eleganti. Dati analitici: alcol 12,65% vol.; acidità totale 5,64; pH 3,2; acidità volatile 0,36. 2010 Veste un abito giallo paglierino con arabeschi dorati. La prima ondata odorosa offre un tono varietale di fiori di vite, acacia e tiglio, mentre nel fruttato ondeggia tra carambola e pesca noce, che si fondono con una stuzzicante mineralità di idrocarburi e sale marino; in chiusura elargisce pepe bianco e alga marina. In bocca l’acidità ha slancio di cedro e ananas, dando la sensazione di una temperata fusione fresco-alcolica, in pieno equilibrio; nel finale rinasce la spinta vibrante di acidità e salinità. Dati analitici: alcol 14,29% vol.; acidità totale 5,18; pH 3,34; acidità volatile 0,43. 2009 Da quest’annata il sauvignon entra nella cuvée. La tinta vira al giallo dorato, il luccichio della limpidezza emana caldi raggi luminosi. Firma lo spartito olfattivo con vaniglia, liquirizia e cremosità; il fruttato si tinge di giallo, mango e pesca, così come il floreale, con ginestra e tiglio; in chiusura fa capolino il lemongrass. Il palato regala sinuosità fruttate, l’acidità e l’alcol si intrecciano per tessere un personale equilibrio, favorendo l’avvolgenza che crea un finale al Mersault: panna, spuma di cappuccino e zafferano. Dati analitici: alcol 13,69% vol.; acidità totale 5,66; pH 3,19; acidità volatile 0,36. 2008 È l’ultima annata in cui lo chardonnay domina solitario. Veste dorata, con superficie cromatica che sembra lucidata da poco. Abbondante confettura di frutta gialla nella prima fase olfattiva: anche la marmellata di cedro e la polpa di mango e papaia definiscono in modo netto la personalità fruttata. Il fondo minerale fatica a insaporire e dare una scossa energica al nodo odoroso, che resta addolcito, seppur elegantemente, con spunti di caramella al miele e burro. Scivola in bocca con fluida morbidezza, fiorettata da un’acidità al gusto di ananas fresca e da una sapidità proiettata verso la mineralità calcarea. Ottimo il finale con aroma di legno di liquirizia e paglia secca. Dati analitici: alcol 13,84% vol.; acidità totale 6,04; pH 3,28; acidità volatile 0,44. 2007 Come oro al sole il colore sfavilla e rende brillante la limpidezza. Il profumo ha già imboccato il sentiero dell’evoluzione fruttata, con pesca, mela cotogna e pera; anche nel floreale i petali sono appassiti: gelsomino e narciso giallo; e ancora, erbe aromatiche e basilico. Dopo qualche secondo l’addobbo olfattivo si arricchisce d’odori di soufflé all’arancia e crème brûlée che fanno tanto Chardonnay evoluto. In bocca l’acidità si dilegua, ma non si arrende, tra i rivoli di una morbidezza ormai esuberante; ci pensa la speziatura del pepe bianco a dare un pizzicotto di energia al finale, così la scia amaricante può esaurirsi senza scossoni nell’equilibrio. Dati analitici: alcol 13,67% vol.; acidità totale 5,78; pH 3,3; acidità volatile 0,37. 2006 Quest’oro brilla di gioventù, trattenendo un riflesso paglierino senza tempo. Il naso è premiato da eleganti presenze floreali e fruttate, un po’ di tostato (chicco d’orzo); un’agitazione più prolungata del liquido riesce a incoraggiarlo, a scoprirne le carte: ginestra e mimosa, più papaia che mango, melone e banana, cedro, eucalipto e zafferano. Tantissima è la sapidità, sconcertante, al pari dell’acidità, non prevedibile al colore e all’olfatto. Il vino è sostanzioso in tutti gli aspetti della struttura, è amalgamato ma non rinunciatario nel volersi ancora migliorare. Un esempio di Chardonnay giocherellone se accostato alle annate degustate in precedenza. Dati analitici: alcol 14,03% vol.; acidità totale 5,99; pH 3,51; acidità volatile 0,39. 2005 Attimi colorati di giallo dorato scintillano nella limpidezza. Ha profumo di susina gialla e nespola in confettura, poi albicocca e caramello, gelatina d’ananas e mandorla bianca, crema di arachidi e sfumatura creamy. Il pizzicore dell’alcol apporta un calorico effetto tonificante. La struttura recupera equilibrio in durezza attraverso la sapidità gustativa che è espressione di una burrosità salata. La corrispondenza gustoolfattiva è ben cesellata in gradevolezza, con una sponda retronasale balsamica, d’oli essenziali al limone e zenzero. Dati analitici: alcol 13,77% vol.; acidità totale 5,91; pH 3,3; acidità volatile 0,38. 2004 Il giallo dorato ha screziature marcatamente d’evoluzione. Il lato ossidativo, seppur controllato, già spinge per primeggiare sulla confettura di albicocche, sui fiori di gelsomino, magnolia e camomilla; le note terziarie balsamiche e di erbe officinali vanno quasi oltre l’equilibrante personalità olfattiva, poi un amaricante fiore di tarassaco mette la parola fine all’ampiezza. Scivolosamente morbido nel volume liquido, crea più un effetto di crema di latte che di freschezza generale. C’è un però: ha chiusura sorprendentemente ferrosa e al caffè tostato. Dati analitici: alcol 14,21% vol.; acidità totale 6,17; pH 3,39; acidità volatile 0,41. 2003 Tutti la ricordano come un’annata caldissima. Se il miele si potesse definire oro giallo, questa descrizione calzerebbe a pennello. Tutto è dolcemente maturo al profumo; i fiori sono un elisir di miele puro, di acacia e di conifere, ci sono eucalipto e cardamomo, anacardo e nocciola, gelatina di frutti esotici e viennoiserie. L’acidità ha un taglio molto sottile, la copre un manto di velluto setoso in parte glicerico e un po’ alcolico; fortunatamente la buona stella della mineralità del galestro di Brolio insaporisce la struttura: se ne avvantaggia il finale, in cui fa capolino, miracolo, una freschezza che trascina con sé note di arancia. Dati analitici: alcol 14,44% vol.; acidità totale 5,7; pH 3,42; acidità volatile 0,63. 2002 Il colore è nell’età dell’oro, nel bel mezzo di una corsa senza visione del traguardo. Si avverte l’ampiezza della maturità, con cera d’api, fico bianco fresco, croccante alla mandorla, caramella inglese, tono minerale gessoso. L’energia fresco-sapida sta leggermente rallentando, dopo la lunga scalata sta per iniziare la discesa: c’è un taglio salino e iodato, e ancora di gesso che resiste all’onda morbida e setosa, presto cederà al canto delle sirene, per addormentarsi sognando paradisi chablisiens. Dati analitici: alcol 14,04% vol.; acidità totale 5,86; pH 3,7; acidità volatile 0,54. 2001 Il giallo ambra fa capolino nelle screziature dorate, però la luccicante luminosità anticipa l’integrità del viaggio organolettico finora effettuato. La lancetta evolutiva oscilla tra le note dei fiori gialli appassiti, dolci tisane al tiglio, cardamomo e noce moscata, mandorle avvolte nel miele, scorza di pompelmo, pan brioche e burro fuso. L’organicità dei profumi si rinforza, tonificandosi, con un rivolo finale di distillato di prugna. Mille volte sapido, strutturato in sostanza morbida per comporre un sorso quasi muscoloso, senza rinunciare alla raffinatezza; lunghissima è la chiusura del gusto, piena di calcare. Dati analitici: alcol 13,94% vol.; acidità totale 5,37; pH 3,59; acidità volatile 0,5. 2000 Ha una tonalità colorante che fonde scintillii ambrati incastonati in una culla d’oro, effetto gioiello in brillantezza. Foglie di tè, chicco d’orzo, liquirizia, erbe officinali, sottobosco di muschio, funghi e arancia candita, insieme siglano un’evoluzione felicemente raggiunta. Al palato la nota fresca del frutto della nespola ne sorregge l’energia vitale, però al secondo assaggio le voluttuosità armoniose al gusto d’albicocca e crema alla vaniglia corredano la finezza complessiva di note di pasticcini al burro e agrumi canditi, sorprendendo con una chiusura minerale che merita un francesismo: poudre à canon, très léger. Dati analitici: alcol 14,01% vol.; acidità totale 6,1; pH 3,59; acidità volatile 0,75. 1999 Giallo dorato. È la mineralità a tirare il carretto olfattivo nei primi secondi d’inspirazione: un tono Chablis per gesso e canna di fucile; poi scorze d’arancia candita; lo scafo odoroso veleggia verso tostature amaricanti e note d’erbette secche e di pigna, caprifoglio e ranuncolo. La sottilissima liquidità, con una rinfrescante e giovanile acidità, danza e gioca sulle papille gustative già solcate da una sapidità che si concede a pieno corpo all’alcol, per un finale lunghissimo e gessoso. Dati analitici: alcol 13,58% vol.; acidità totale 5,09; pH 3,53; acidità volatile 0,52. 1998 L’iride si colora di oro, attratta da una luminosità radiosa. Il mix odoroso è dolce, pieno di maturità fruttata e florealità appassite; il bouquet si fa misterioso, cripticamente speziato, di stecca di vaniglia e noce moscata. Dischiusosi, l’aroma si materializza nella nocciola tostata, nel caramello e nello sciroppo d’acero. La struttura gusto-olfattiva ha raggiunto una coesione tra freschezza e sapidità, è più il calore rispetto alla glicerina che va a disperdersi nelle crepe della durezza, tanto che il taglio complessivo della sua evoluzione è una maturità di giovanile impronta, come a dire: li ha, ma non li dimostra. Dati analitici: alcol 13,78% vol.; acidità totale 4,81; pH 3,49; acidità volatile 0,52. 1997 Giallo dorato con pennellate deliziosamente ambrate. Quando le note terziarie entrano per prime nella dimensione olfattiva c’è sempre il timore che oltre ci sia il vuoto. Non è questo il caso: nonostante le note preziose di miele di castagno e pinolo tostato, caramelle agli agrumi, pan di zenzero, zafferano e curry, la personalità del varietal riesce a resistere con susina gialla in confettura, cotogna, fiore di gelsomino e camomilla. L’assaggio accarezza le papille, quasi le massaggia per lo spessore glicerico; niente alcol a disidratare, ma sapidità di sale e speziatura di pepe bianco a creare la sorpresa vibrante, magico pizzicore, e quel finale d’aroma un po’ curry e un po’ zenzero lo avvicina a un vin jaune. Dati analitici: alcol 13,42% vol.; acidità totale 5; pH 3,31; acidità volatile 0,45. 1996 È oro e ambra, ambra e oro, con sfumatura topazio trasparente. All’inizio il profumo è reticente. Si fa poi disinvolto, proponendo uno spigliato erbaceo, macchia mediterranea, fiori di lavanda ed erica essiccati, e ancora, la mela golden disidrata, la frutta caramellata, le note iodate, l’accenno di propoli. Vince facile la morbidezza al gusto, creando una sofficità insaporita da una freschezza al sapore del mango e della gelatina di alchechengi; il ricordo retrolfattivo è solcato da una scia di lemongrass inconsueto e attraente, data l’età del prodotto. Dati analitici: alcol 12,99% vol.; acidità totale 4,98; pH 3,34; acidità volatile 0,32. 1995 Il giallo ambrato è chiaro, brillante e vivido. Il momento olfattivo è immediatamente orientaleggiante: legno di sandalo, spezie rosse, erbette officinali, resina di pino. La mandorla è bianca a tostatura dolce, il caramello, il miele e l’orzo si fondono e diffondono. Dire fresco è un eufemismo, la sua evoluzione non lo consente, però c’è vivacità al gusto, con il calore dell’alcol che tira stoccate di fioretto agli spunti acidi del fruttato ancora agrumato, la mineralità diventa lo sparti-gusto di un equilibrio già composto e Dati analitici: alcol 13% vol.; acidità totale 4,79; pH 3,33; acidità volatile 0,35. 1994 Increduli, gli occhi sono attirati dal giallo dorato e ci si domanda: e l’età? Il tempo di fotografare resta un barlume tra l’attimo e l’intuizione, conviene dedicarsi al profumo. Tutto il suo fruttato è tostato, dalla nocciola all’anacardo, dalla mandorla all’arachide, anche l’uva sembra sultanina e il fico bianco è secco e burroso, e non solo burro di latte ma anche di arachide. Primo sorso: fresco; secondo sorso: fresco. Com’è possibile? Meglio lasciarsi sedurre dalla sua rinfrescante acidità piuttosto che meditare: a che pro? Invece buon pro gusto-olfattivo ci fa questa sottile e sinuosa liquidità, in cui si celano gli effetti di una sapidità salina che modella una chiusura da sogno. Ultimo sorso: fresco, cribbio! Parafrasando Eric Fromm, escape from acidity, fuga dall’acidità, senza riuscirci. Dati analitici: alcol 12,04% vol.; acidità totale 5,17; pH 3,28; acidità volatile 0,36. 1981 Il colore brilla di un nitore ambrato, come liquido surgivo. I profumi rientrano in quel mondo a parte dove i sensi olfattivi riescono a dimensionarsi in nuvolosità tostate di mandorla e castagna. Sono aromaticità autunnali di foliage, di funghi e aghi di pino. Il gusto è assorbito dalle papille per finissima liquidità, con stoffa satinante dentro un nucleo caldo/sapido, per un finale aulente di pasticcini al burro e marmellata d’arancia. Dati analitici: alcol 13,22% vol.; acidità totale 4,88; pH 3,64; acidità volatile 0,74. 1960 Una chiarissima ambra preziosa colora la brillantezza. Ha un bouquet più ampio che intenso, coglierne le essenze è sublimante. Noce moscata e cardamomo, fiori secchi di erica e lavanda, legno di liquirizia, iodio, mela e pera disidratata, pinoli tostati nel burro, semi di zucca, sambuco. Il taglio gustativo è secco e amaricante, espressione selvante di malvasia che ha nella flessuosità delle durezze quel gradito effetto di ampiezza richiesto a un vino che non fa della forza la sua espressione organolettica, ma gradisce congedare la freschezza a rilascio lento, come accarezzando le esili morbidezze di un finale che illanguidisce in una nota fenolica. Dati analitici: non disponibili per poco vino a disposizione. 1957 La brillantezza esce da una gracilissima consistenza colorata di giallo ambrato. La matrice terziaria è dominante, si erge impattante con richiami di caramella al burro, all’orzo e al miele. Le note floreali traguardano essenze di petali, come distillati: di camomilla e margherite di campo; l’ampiezza evapora con un alito di pietra bianca. È tuttora speziato di stecco di vaniglia. Al palato sottilissime granulosità minerali tratteggiano una dimensione in grado di rilasciare ancora freschezza di frutta a polpa bianca; resiste un sussulto speziato di pepe bianco. Dati analitici: non disponibili per poco vino a disposizione. 1955 La limpidezza si fa cristallina, emergendo da un giallo topazio di media intensità cromatica. Il profumo non riesce a declinare la sua intensità, inizialmente è soffocato. L’attesa è ripagata con effluvi inusuali per degustatori non avvezzi a odorare scrigni sigillati da molti anni. Il ventaglio olfattivo è una mappa odorosa di erbe secche e tostature, paglia e pula di grano, uva bianca appassita e iuta, pasta all’uovo, farina di mais. C’è anche del frutto, come noce e prugne gialle. In bocca emerge una friabile avvolgenza… e morbido sia questo corpo snello che si scioglie in una finissima salinità, svolazzante nel finale come un confetto alla mandorla. Dati analitici: alcol 14,02% vol.; acidità totale 5,44; pH 3,14; acidità volatile 0,62. 1952 Giallo ambra smagliante. Sfuggente e sgusciante, la scia dei profumi ha un’anima estiva. L’emozione dell’attimo chiama voci poetiche, di montaliana lirica, come odorose fronde di sterpi e pruni arroventati dalla canicola, in un travaglio sereno di ferro e granuli di sale marino, di tisane mentolate e amaricanti, di oli essenziali che rompono minuscoli atomi di balsamicità. La freschezza e la sapidità hanno la saggezza di chi ha camminato molti passi, i sapori sono leggiadri e soavi, tutti danzanti per leggerezza morbida e il tocco finale è una goccia di miele all’Armagnac. Dati analitici: alcol 14,12% vol.; acidità totale 5,53; pH 3,24; acidità volatile 0,74. 1950 L’ambra giallastra della tinta si ravviva di rossicce circonferenze aranciate. Nell’intensità del profumo si coglie l’erbaceo aromatico essiccato, di menta romana, corteccia di pino, aghi di abete e grappoli di sambuco. Sorba e giuggiola, ciliegia sotto spirito e semi di cumino timbrano l’età del terziario. C’è secchezza e secchezza nel gusto del vino, questa è una versione snellita dall’alcol e spruzzata di distillato di susina; il vino scivola tra le papille per culminare con una sapida integrazione di polvere calcarea. Chiusura di nespole appassite sulla paglia. Dati analitici: alcol 14,1% vol.; acidità totale 5,51; pH 3,23; acidità volatile 0,73. 1949 Ha color ambrato chiaro. Trasformando in musica il profumo, il tempo di risposta è un pieno adagio con solennità olfattive di miele amaro, crème brûlée, malto e iodio, burro e caramello, un po’ di fumé. La classica tostatura della malvasia emerge lieve, offrendo nuance di orzo e grano, foglia di castagno. Si dovrebbe pensare a un flusso gustativo amletico, un essere o non essere che ha il suo dilemma nell’intercettare l’espressione gustativa di gelatina salata, di setosità fruttata, come mostarda. Il tempo che segna il finale di bocca va di grave rincorsa, smorzando continuità speziate e balsamiche. Dati analitici: alcol 14,19% vol.; acidità totale 5,67; pH 3,22; acidità volatile 0,67. 1945 È un’ambra tinteggiata di brume autunnali. Anche al naso i segni della stagione degli addii iniziano a odorare di etereo, un po’ cera, un po’ distillato di frutta, qualche rivoletto di vernice e unguenti balsamici. Arroccato sulle essenze terziarie, solo da qualche feritoia gli odori di paglia umida, di sottobosco fogliato e champignon danno certezza al varietal, il fruttato è sconfitto. Il saluto organolettico si allunga, la lontananza è una freschezza immaginata, il sogno della vittoria; leggeri effluvi amaricanti si condensano in un finale rugginoso. Strutturalmente è sostenuto da una sensazione sapida. Dati analitici: alcol 13,78% vol.; acidità totale 5,78; pH 3,22; acidità volatile 0,75. 1943 Ha il colore ambrato di un grain Whisky, brilla di calore. Il taglio olfattivo è dentellato di uvetta sotto spirito, di ciliegia bianca in bagna di Cognac, di nespole e sorbe disidratate, di paglia di grano, curry e origano selvatico. La secchezza taglia il gusto accompagnando l’alcol in un hot style che riesce ancora a mantenere in equilibrio l’ossatura strutturale. C’è una masticabilità sostanziosa nella tattilità glicerica e il finale, seppur tremolante, ha un che di Marsala vergine depurato dal fumé e dal legno che liscia alcune rughe nell’armonia. Dati analitici: alcol 13,46% vol.; acidità totale 5,4; pH 3,34; acidità volatile 0,77. 1942 Il colore ricorda le ambrate cromaticità di un aged Calvados. Che sia “nervino” quel profumo di polvere di caffè, d’orzo tostato e di ginger? Sì lo è! Euforizzante. Il tono olfattivo di tabacco dolce dà eleganza, insieme a un effetto jelly fruit al gusto di arancia amara. È un inverno del ’42 al tartufo bianco. La sapidità ha ancora energia da spendere, l’acidità si stampa in un sapore di frutta tropicale in bagna di giovane distillato di vino, l’alcol crea una dispettosa aridità che rende asciutto il finale: è volubilmente raffinato, sfuggente agli sguardi come la fanciulla al ballo delle debuttanti, in altre parole è figlio di un’aristocrazia enologica. Dati analitici: alcol 13,49% vol.; acidità totale 6,41; pH 3,1; acidità volatile 1,06. 1941 L’effetto luccicante della limpidezza è riflesso da un fondale colorato di giallo topazio. Il bouquet è intricato, va decriptato all’interno di una concentricità di scorze di mandarino e gherigli di noce, di guscio secco di mandorla e foglie secche di quercia. Profumo labirintico, polvere di matcha. La secchezza di gusto anima la struttura del vino, rilascia una sapidità ferrosa come grappa invecchiata o infuso di genziana; la scia amaricante non è conseguenza d’ossidazione perché ha tono aromatico e non saporifero, nel finale l’effetto fumé è quello di un tè alle spezie. Dati analitici: alcol 13,58% vol.; acidità totale 7,94; pH 3,05; acidità volatile 1,18. 1934 Incredibilmente ambrato chiaro… incredibilmente: segno del tempo che non passa. L’effetto di albicocca secca offre uno sbalorditivo spunto di aromaticità, propoli e cera d’api fuggono dall’effetto riduzione e arieggiano la complessità che si arricchisce anche di Cognac all’arancia, un po’ di amaretto e un tocco di curry che fa molto anima Jura. Il liquido scivola, le durezze non riescono a svegliare del tutto le papille, il tandem alcol e morbidezza si armonizza in un sottilissimo velo, intervallato da finissime granulosità sapide. Il sorso finale è da manuale, il vino si disperde in se stesso odorando come un viale di cipressi a fine estate. Dati analitici: alcol 13,35% vol.; acidità totale 6,9; pH 3,07; acidità volatile 1,22. 1927 Potremmo considerarla una vendemmia futurista e ci immaginiamo un sommelier adepto del movimento descriverlo con quei toni. Lo “zang” colorato ha un fervore chiaro, ambrato, luccicante come lo scintillio della mitraglia “tatatatata”. “ScaAbrrRrraaNNG” odoroso, da boutique-bouquet, per l’odorante odorar del dinamismo delle agrumate scorze seccatesi di entusiasmi eterei (W il cordiale), di semantiche granaglie d’orzo e grano, di polvere d’argilla sollevate dal “tumb tumb” dei passi in vigna. Furibonda l’esile massa liquida, strofinante di glicerica disperazione cannoneggia, ta-pum-ta-pum, la trincea della papille a difesa dell’eleganza delle uniche forme liquidiche della continuità di uno spazio, per assaporare le bisbetiche strofe della sapidità. “SKRAASKRAAKRAANG – KRANG”, s’è chiusa la sferragliante saracinesca sognante, ma il “bilobilobilobilobilo” è senza fine. Dati analitici: alcol 13,14% vol.; acidità totale 7,17; pH 3,26; acidità volatile 1,14. C’è un prima e un dopo nel Torricella? Sarebbe un non senso argomentativo tentare di stabilire un’alternativa tra due tesi enologiche la cui equivalenza non può essere supportata da ipotesi; si può parlare piuttosto di antinomia della ragion di vino, essendo le due età del Torricella concettualmente due sfere enoiche dell’esperienza del possibile. Il Torricella dell’età recente (1994-2015) è figlio di un ventennio enologico in cui l’empirismo non è più la semplice e solitaria fruizione del pensiero generato dall’umana materia grigia custodita nell’hardware cranico, è frutto anche di un altro hardware, la cui materia grigia si chiama software. È un vino in cui confluiscono sistemi di apporti e di esperienze che trovano nel lavoro d’équipe e nell’elaborazione rigorosa delle analisi tecniche le migliori condizioni operative per raggiungere il risultato ottimale. Sono l’efficienza della tecnica del nuovo millennio e la raccolta sensoriale dei dati organolettici il leitmotiv enologico del “nuovo” Torricella, con l’uva chardonnay all’inizio, e poi il sauvignon, a testimoniare una rinascita dopo una decennale assenza, non dovuta a rinuncia progettuale ma a distrazione di strategie. È un Torricella pensato a nuovo anno dopo anno, erede di quell’ardimento sperimentale che era di casa nelle Cantine di Brolio nel ventennio successivo all’Unità d’Italia. La riflessione che spontaneamente emerge dalla valutazione generale ci indirizza verso un vino dinamizzante, come in perenne ricerca di un sé interiore che vuole distanziarsi dagli altri sé a filosofia “chardoneggiante”, per aggiungere un tocco di sublime e accostarsi a quel bianco icona storica ottocentesca. Il Torricella dal 1927 al 1981 sboccia nel periodo dell’efficienza autarchica e un po’ guascona, che mascherava le assenze di strategie con ridondanti proclami e rumoreggiamenti sociali. Non è il vino delle alchimie in forma excel, è piuttosto quello calligrafico degli appunti scritti con il pennino o con il gessetto sulla lavagna di ardesia. A queste età del Torricella si perdonano con piacere quei vizietti di antico profumo e di incerto camminar del gusto che all’epoca dei suoi giovanili entusiasmi dovevano essere arte pura. Le annate degustate offrono una sinossi di personalità enoiche multiemozionali, in cui confluiscono tenerezza e fragilità, “così fragile / così tenero”, per un vino prevertiano, da amare con disperazione, perché è “vivo come il desiderio / crudele come la memoria”. È il vino bianco della memoria di Brolio.