Quando il food si chiamava ancora “cibo”, quello del cuoco era un mestiere. Certamente nobile e prodigioso nelle sue espressioni più alte. Ma pur sempre un mestiere, in connessione diretta con una precisa funzione commerciale e sociale. All’epoca del cibo, nelle sale dei ristoranti d’ogni ordine e rango sedevano i clienti, i quali avevano facoltà di ordinare i piatti di loro gradimento. Il cuoco cucinava per il cliente. E questo mangiava per se stesso.
Ve lo ricordate? Ciarpame d’altri tempi. Al giorno d’oggi, il cliente è stato convertito al ruolo di visitatore. Mentre lo chef è un artista, svincolato da ogni obbligo di servizio o di gratitudine.
Occorre una presa di coscienza collettiva del nuovo corso. Bisogna che la gente lo comprenda sino in fondo, senza opporre resistenze antistoriche.
Ma, ancor più, è necessario che i giovani cuochi assumano, intimamente, profondamente, la nuova consegna.
Vorrei, quindi, cogliere l’occasione per dare qualche consiglio a quelle nuove leve che sognano di scalare le classifiche “golose” delle guide e dei congressi per accedere al mondo delle star in giacca bianca.
Tuttavia, non mi sento all’altezza del compito. E allora? Mi affido al verbo di uno dei più grandi chef che il nostro Paese possa vantare. E, cioè, a Tony Mona, patron del ristorante “Muso de Tony” a Venegazzo sul Brenta.