“A me mi piacciono molto le canzoni antiche, anche le Quattro Stasioni di Vivaldi”: a distanza di decenni, ricordo ancora le prime righe del tema di uno scolaro che un amico insegnante si era ritrovato a correggere, tra una pila di componimenti altrettanto ispirati, per chiudere una sessione di esami della Terza Media. Nell’immaginario comune le “Quattro Stasioni” sono infatti per definizione quelle di Vivaldi. Alcuni suoi passaggi sono talmente iconici (l’incipit della Primavera, il detonante temporale dell’Estate) da aver superato i confini di genere - musica classica, musica pop, musica soft metal, musica parrocchiale - per approdare allo status di motivetto universale, ormai depositato stabilmente nell’inconscio di un fiscalista boliviano come in quello di un teenager ucraino o di una casalinga di Acilia.
Eppure di dipinti musicali sulle stagioni esiste almeno un altro illustrissimo conseguimento: l’oratorio Le Stagioni di Franz Joseph Haydn, compositore nato in Austria nel 1738 e ivi passato a miglior vita nel 1809. Devo fare un’imbarazzante premessa: in decenni dedicati all’ascolto della musica non sono mai riuscito a entrare in sintonia con l’opera haydniana. “Incapace di rimasticarne l’idea”, a dirla con Gadda, sono sempre rimasto inerte anche davanti a capolavori quali La Creazione o la Sinfonia n. 45 detta degli Addii. La mia impressione, di evidente e inescusabile rozzezza, è che si tratti di un Mozart in media più noioso; luogo comune peraltro diffuso. Peggio di così non potrei andare, per un vero cultore di musica. Haydn è infatti considerato senza mezze misure uno dei più grandi artisti della storia umana, un vero monumento della musica moderna: padre della sinfonia, padre del quartetto per archi, zio dell’oratorio, architrave centrale della cultura occidentale e altri titoli onorifici lunghi un chilometro.