Doc ad hoc?
AIS Staff Writer

Gli ultimi giorni dell’anno sono dedicati ai bilanci, non soltanto di natura economica. Capita spesso che, nell’ottica di ottimizzare, si punti il dito su un aspetto che pare in esubero, da immolare sull’altare dell’efficienza o del risparmio. È accaduto in diversi settori, ma la volontà di sopprimere o di unificare a tutti i costi non sempre ha prodotto gli attesi benefici, con ripensamenti in extremis per arginare il danno fatto. Un esempio potrebbe essere quello delle province italiane, con l’orientamento ad accorparle o addirittura a eliminarle. O il recente passaggio del Corpo Forestale dello Stato nei ranghi dell’Arma dei Carabinieri, sul quale è troppo presto per azzardare valutazioni. Quando si obbliga qualcuno o qualcosa a stare insieme per forza, non sempre si risolve il problema, anzi, spesso si disperdono e si banalizzano una serie di peculiarità che si erano create nel tempo.

Qualcosa di simile è successo nella piccola distribuzione, dove il negozio sotto casa o la bottega del paese sono stati considerati un freno alla crescita del commercio; ora che sono pressoché scomparsi gli esercizi che svolgevano soprattutto un ruolo sociale per le comunità locali, ci accorgiamo che i grandi centri commerciali non corrispondono alle aspettative e spesso sono carenti di figure professionali in grado di consigliare il consumatore.

Anche il sistema vitivinicolo del nostro Paese, tra incertezze e contraddizioni, sembra contagiato da questa sindrome. Sono finiti gli anni in cui una Doc non si negava a nessuno, una sottozona si concedeva senza troppe remore, un vitigno in più non arrecava alcun pregiudizio al registro nazionale delle varietà. Ampliando il panorama, aumentava il consenso. Adesso la tendenza è esattamente inversa: le Denominazioni di Origine e le Indicazioni Geografiche sembrano troppe e si studia come accorparle o come eliminarne qualcuna; si propone di espiantare le varietà che non hanno una sufficiente diffusione; un ettaro di superficie coltivata (da qualche parte anche meno) è percepito come un limite allo sviluppo di un territorio. Eppure, ci riempiamo la bocca con parole come “artigianalità”, “particolarità”, “territorialità”, fino all’abusatissima “biodiversità”. Come pensiamo di praticare queste virtù, se siamo così inclini a massificare tutto? Qualcosa non torna.Viene in mente il proverbio - perfettamente calzante nel caso del vino - del voler la botte piena e la moglie ubriaca.

La relazione tra piccolo e bello, o tra piccolo e buono, non va considerata valida a priori, ma le aziende di dimensioni più contenute sono in grado di assicurare una maggiore cura del prodotto, dimostrandosi spesso più flessibili e innovative, più adatte ad affrontare un mercato in continua evoluzione. Del resto, è risaputo che il tessuto produttivo, il propulsore della nostra economia, è costituito in larghissima maggioranza da piccole imprese.

E se provassimo a interrogarci sul fatto che la criticità talvolta non risiede in un eccesso, ma in una carenza? Quella di conoscenza, ad esempio. Il successo del vino italiano è determinato dalla capacità di suscitare emozioni, un aspetto che prescinde da numeri e statistiche, e che necessita di un’attività di comunicazione peculiare. L’Associazione Italiana Sommelier è nata più di cinquant’anni fa proprio con l’obiettivo di divulgare il profilo culturale del vino e difenderne strenuamente il valore. Il suo fascino, lo stile, il carattere, le sue particolarità hanno una stretta affinità con la nostra bella lingua, fatta anch’essa di una miriade di sfaccettature, e forse non è un caso che entrambi siano spesso trattati con superficialità e approssimazione.