Vent’anni di tumultuose vicende per una veemente diatriba tra due fazioni, il Consorzio Tutela Valtellina Casera e Bitto da una parte, i ribelli del Bitto dall’altra. Penne competenti e autorevoli hanno delineato con puntualità la cronistoria di questo caso gastronomico, con rotture, tregue, trattative ministeriali, regionali e provinciali, a costituirne i tasselli.
Da più di un anno il Bitto Storico, Presidio Slow Food dal 2003, ha un nuovo nome: si chiama Storico Ribelle. La prima sensazione è quella di un documento d’identità nel quale siano stati corretti i dati anagrafici lasciando inalterata la foto. Come dire: sacrificato il nome, la straordinarietà del prodotto non è in alcun modo scalfita. A confortare l’iniziativa è la frase, di bernardiana memoria, di Umberto Eco: Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus, che lascia intendere come la transitorietà delle cose renda effimero e irrilevante il nome stesso che attribuiamo alle cose. Forse una magra consolazione per i sostenitori dello Storico Ribelle, ma indubbiamente un contributo culturale riconducibile all’insistito messaggio che denuncia la mortificazione dell’idea originaria di Bitto, dalle profonde radici storiche, geografiche, culturali, etiche.
A cosa si rifà quest’idea originaria del Bitto?
Per comprendere il senso atavico di questo capolavoro d’alpeggio, occorre meditare sul valore della continuità. Il patrimonio di reputazione e di conoscenze messo a dimora nei secoli rende insostenibile le argomentazioni che tentano di ignorare o marginalizzare la tradizione, principio sacro per la comunità del Bitto storico.
Il forte senso identitario che unisce e inorgoglisce i caricatori d’alpe e i casari della zona storica - quella, per intenderci, delle vallate orobiche occidentali di Gerola Alta e Albaredo in Valtellina e dei comuni confinanti delle province di Bergamo e Como (ora Lecco) - va ricondotto al concetto di “comunità di pratica”. Questa definizione identifica aggregati sociali che esercitano la medesima attività interagendo tra loro e il mondo circostante, modellando e affinando le relazioni tra singoli individui e ambiente esterno. L’apprendimento delle tecniche di un mestiere comune alla collettività esercita una forte influenza sulle dinamiche sociali della collettività stessa; in altre parole, l’esperienza maturata in un’attività condivisa affina anche l’attività sociale, generando un sistema socio-culturale regolamentato.
Questo sistema sancisce l’originalità dello scenario produttivo del Bitto e dei suoi attori. Un’organizzazione che, in un contesto preindustriale, alimentava la circolazione della conoscenza dell’arte casearia in modo quasi istintivo, in un’ottica di interscambio generazionale tra individui virtuosi tenuti insieme da senso di appartenenza, solida fiducia reciproca, forte propensione a collaborare per il benessere comune, condizioni che oggi paiono puramente utopiche e la cui progressiva estinzione avrebbe generato la concezione rigida del disciplinare di produzione.