ciak, si beve
Gherardo Fabretti

“Te la magneresti una pizza?”, propone il padre con uno sguardo carbonaro. Il figlio annuisce, con un sorriso paffuto, gli occhi pieni di complice gratitudine. Nella trattoria, tra boccate di fumo e rumore di posate, una banda strimpella Tammurriata nera; ai tavoli si battono le mani. La parola d’ordine è ubriacarsi, ma senza pizza; quella non c’è, dice il cameriere. “Du mozzarelle in carrozza e vino sùbito”, allora.


La scena è tra le più famose della storia del cinema italiano: viene da Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica. Antonio e Bruno, dopo avere consumato le suole alla ricerca della bicicletta rubata, fondamentale per rimettere in piedi le disastrate finanze di famiglia, decidono di finirla con tutto quel malumore e di andare in trattoria. Nei crudi anni del dopoguerra, anche un peccatuccio come quello assumeva i toni di una grandiosa sfida a un destino senza misericordia.

Ed ecco allora il vino, bianco, peccaminoso, in caraffa da un litro, assai diverso dall’elegante bottiglia etichettata del tavolo accanto, dove lo sguardo da rospo del bimbo coetaneo insolentisce il piccolo Bruno. Ma non importa: quel bianchetto fresco ha il sapore della rivalsa, rimane piantato sul tavolo, orgoglioso del suo anonimato, simbolo di ecumenismo per ogni disgraziato.


Il sollievo però dura solo un attimo: il pensiero torna alla bicicletta perduta, al lavoro mancato. Col tovagliolo non ci si nettano più le labbra: si fanno i conti. Il tavolo a mo’ di scrivania; il vino, da fresco e dritto, si è fatto caldo e fiacco. L’ebbrezza del convivio ha sollevato per un minuto, non per una vita. “Convivio” è una parola aulica, richiama la ricchezza, le tovaglie di fiandra e le posate d’argento, ma, a dispetto della nobiltà del termine, il vivere assieme (il cum-vivere), il mangiare assieme, non sono appannaggio dei soli ricchi. Non c’è cultura nel mondo che non abbia inquadrato la propria identità a tavola, come non c’è classe sociale a cui la tavola, per quanto misera, sia stata preclusa. Tra le culture del mondo non ce ne sono altre, al pari di quella italiana, che abbiano dedicato tanta attenzione alla ritualità del cibo nella cinematografia, sin dal suo esordio.Tutta la storia del cinema italiano trabocca di rumor di mandibole, di bicchieri levati, trasformando la sala da pranzo in un palcoscenico di drammi e comicità, di tragedie e affetti, di rese dei conti e riappacificazioni, spesso condite dal sottofondo dei calici fatti risuonare in mille brindisi, a volte cautamente appoggiati, a volte persino fracassati.