Che cosa accomuna l’umbro sagrantino di Montefalco al pugliese nero di Troia?
Un ingente patrimonio polifenolico, che consegna vini virili, dal tannino imponente.
Che cosa accomuna l’umbro sagrantino di Montefalco al pugliese nero di Troia?
Un ingente patrimonio polifenolico, che consegna vini virili, dal tannino imponente.
I polifenoli, croce e delizia di ogni viticoltore ed enologo: da incrementare se scarseggiano, da frenare se tendono a predominare, soprattutto quando si parla di tannini. Più semplice è la soluzione nel primo caso, da attuare tramite spremiture e macerazioni spinte, oppure ricorrendo ad altre uve per arricchire i mosti più scarichi. Difficile invece addomesticare le uve più tanniche, spesso con bacche piccole, dalla buccia coriacea, che danno vini taglienti nell’immediato ma estremamente longevi. Tuttavia, non si può aspettare una decade per inebriarsi. Produttore ed enologo devono collaborare per ottenere l’alchimia perfetta: un dialogo iniziato recentemente, se si considera la storia vitivinicola della nostra penisola e le numerose cultivar condannate alla quasi estinzione per il carico troppo elevato di polifenoli.
Nel dopoguerra le vigne erano ridotte in condizioni pessime. La produzione riprese con vigore a partire dagli anni Sessanta, anche grazie agli ingenti fondi che l’allora Comunità Europea elargì per la viticoltura fino agli anni Ottanta, spesso a sfavore. Erano gli anni degli estirpi selvaggi per far posto ad altre colture, seguiti dalla messa a dimora di nuovi impianti, dalla ristrutturazione e di nuovo dal divieto al libero accrescimento ma con aiuti alla distillazione. Un caos di direttive, che fino agli anni Novanta inoltrati non ha favorito una produzione di qualità, né tanto meno la territorialità. Nella maggior parte dei casi, la scelta quasi obbligata risultò essere quella più conveniente dal punto di vista commerciale.
Riducendo le vigne, occorreva concentrarsi sui cloni facili da gestire e che fornissero vini più carezzevoli, apprezzati dai palati del momento. Cloni che preferibilmente fruttassero per ceppo discrete quantità, per non abbassare le soglie produttive.
In questo scenario, le cultivar più impegnative e le piante più antiche non risultavano appetibili: generalmente hanno poca fertilità per ceppo e per gemma, le uve sono distanti dal gusto moderno, perché di lettura difficile, e richiedono attenzioni particolari in cantina, soprattutto nel caso dei vitigni rossi del Centro e del Sud, con tannini di spessore e zuccheri capaci di conferire gradazioni alcoliche imponenti. Quindi si estirpava e, laddove si ripiantava, si sceglievano qualità internazionali, versatili, affidabili e conosciute. Le varietà autoctone non sono scomparse del tutto solo grazie alla lungimiranza dei vignaioli locali, quelli più anziani, custodi del patrimonio ereditato dalle loro terre. Ne estraevano vini destinati al consumo locale, o vendevano le uve a cooperative o ad altre cantine per il taglio, per arricchire i mosti poveri di zuccheri e polifenoli. Qualche azienda accorta continuava a credere e a investire sui prodotti del territorio e su vini più autoctoni, apprezzati per lo più dai mercati di nicchia.
Solo negli anni Novanta l’Unione Europea, resasi conto che il sistema della Politica Agricola Comune faceva acqua da tutte le parti, cambia modalità
operativa. I produttori iniziano a ricercare uve antiche, quasi introvabili sul territorio. I consumatori, più educati al gusto e più consapevoli
rispetto al passato, sono pronti a riscoprire vini virili con sentori di frutti quasi dimenticati, note originali e tannini genuini.