l'aperitivo è perito
AIS Staff Writer

Il mondo dell’aperitivo negli ultimi vent’anni è andato incontro a un grande stravolgimento interpretativo e fruitivo. Hanno perso appeal i classicissimi cocktail pre-dinner dell’IBA, soprattutto il Gibson, il Bacardi cocktail, il Paradise e il Rob Roy, nonché il Wiskey sour e la famiglia Manhattan. Resistono l’Americano, il Negroni e il Martini nelle varie versioni, mentre scompaiono il Kir e il Kir royal, strapazzati dallo Spritz (dal 2011 cocktail IBA). Se questi cocktail fossero riproposti, potrebbero attirare l’attenzione delle nuove generazioni, spesso appassionate a un gusto standardizzato, adeguato al trend del momento.


L’aperitivo classicamente vip sarebbe altra cosa, perché dovrebbe far emergere la personalità di beva del fruitore, le sue inclinazioni di gusto del momento. L’aperitivo non è quello a prescindere. Deve adeguarsi alla compagnia (maschile/femminile, single o coppie), alla geografia (mare/monti/ metropoli), all’orario (pranzo/cena), alla stagionalità (e le stagioni dovrebbero essere quattro, nel senso di scegliere il Bellini quando le pesche hanno la polpa colorata di rosa vicino al nocciolo) e, ancora, al tavolo o al banco, magari assecondando anche le variabili collegate a momenti lavorativi o di svago, psicologia ed emozioni. Ciò che può evitare monotone standardizzazioni, ravvivare o avviare nuovi gusti dipende dal savoir-faire dei barman, sperando che non si lascino ammaliare dai canti delle sirene dei nuovi gin ricchi di non consuete essenze aromatiche che sgorgano poi in tanti e tanti gin tonic.


Altrettanto non classico è ciò che accompagna l’aperitivo, spesso un abbuffarsi inutile, forse addirittura un ingolfarsi, tanto che la bevanda di accompagnamento passa al ruolo di stura- dissetante. L’auspicio è che si recuperi lo stile di questo straordinario attimo di beva condivisa, si torni alle olive verdi grosse e cicciute, alle noccioline gustosamente equilibrate in sale e non oleosamente ossidate, agli anacardi, alle patatine davvero croccanti; se contrasto ci deve essere, perché non scrocchianti cornichon in vinegar e rotonde cipolline bianche in agrodolce? E quanta nostalgia per l’aglio dolce! L’aperitivo modaiolo ha letteralmente cancellato il rito della bevanda che anticipa il pasto; dall’aperitivo del mattino (in completo disuso) si passa alla stravaganza dell’apericena.


Tutti i barman che hanno miscelato negli anni del classico - quando stile ed empatia regnavano nei

rapporti con il cliente - evidenziano due degli aspetti non positivi dell’oggi.

Al primo posto ci sono proprio loro, i barman. Non correttamente formati, sono spesso molto improvvisati; sono dei pratici (o peggio praticanti) più che conoscitori della professione, incapaci di dosare senza il misurino. Poi c’è la filosofia lavorativa restia a riconoscere i costi e i compensi di una professionalità che, se ben fornita di esperienza, è capace di fidelizzare il cliente. Il problema economico è un altro elemento frenante e si ripercuote a monte, nel segmento dell’apprendimento, perché, se la prospettiva professionale non è proiettata verso un adeguato riconoscimento, non solo monetario, a che pro impegnarsi, se il fine ultimo è dover competere con un cocktail in lattina?

Il rito dell’aperitivo sembra essere scivolato dentro un tunnel in cui si alternano più ombre che luci, molto lontano dai luccichii dei viali cittadini in versione “dolce vita” di via Veneto a Roma, o delle zone pedonali fronte mare tipo viale Ceccarini a Riccione, o la passeggiata a mare della Viareggio liberty. Pensando ai Caffè letterari fiorentini, al Caffè Greco di Roma, al Florian di Venezia o a quelli reali di Torino, lo sconforto ci attanaglia, e quella Milano che fu... diventa un amaro rimpianto. I nuovi locali del rito sono ammassanti, tutti di fronte a un banco in file sovrapposte, tutti carichi di una frenesia da pseudo-sballo che non ha aloni di eleganza, è un brulichio alcolico, un fast-aperitivo o addirittura uno street-aperitivo.


Eppure, nel bon ton dell’aperitivo la parola d’ordine è relax, accompagnato da raffinato chiacchiericcio (ahinoi, oggi ci sono i messaggini), da idee per il fine serata (oggi c’è il gruppo WhatsApp), o dal commento del quotidiano locale (ora è in digitale…).

Siamo dispiaciuti di questa deriva italiana, perché l’Italia è l’essenza vera dell’aperitivo, indiscussa creatrice di uno stile che accompagnò la rivoluzione industriale, e che trova nel 1786, con la nascita del Vermouth di Antonio Benedetto Carpano, l’icona dell’aperitivo simbolo dei cambiamenti sociali, dell’organizzazione industriale, della macroeconomia e della tecnologia. Il sistema aperitivo si afferma anno dopo anno, scavalca due secoli e si presenta all’appuntamento in ogni bar della “Milano da bere” degli anni Ottanta. Attraverso il boom si brinda alla nuova classe emergente, e quell’aperitivo era una sacralità rituale ancora appartenente alle ultime fronde dell’umanizzazione, prima che gli schermi analogici illuminassero di grafici colorati gli avveniristici telefonini.


Indietro non si torna, ma questo andare avanti non significa progredire, perché cancellare quanto c’è stato è uccidere la memoria. L’esuberante eccesso millennials poco personalizzante in fatto di scelte di gusto, e molto abbondante in stuzzichini all’aperitivo, non è destinato a resistere per sempre, e già si intravedono alcuni barlumi di ritorno al classico. Si registra una rinnovata curiosità per il Vermouth (finalmente), c’è il ritorno al fashion del Metodo Classico, le mineralità del vino bianco stanno guadagnando consensi, mentre il rosato suscita continua attenzione. Interessanti anche le versioni rivisitate, come le invitanti pubblicità di vino bianco freddo, ricamato d’erbette aromatiche e piccoli frutti, ad esempio il Moscato dolce ben ghiacciato e i gin tonic a sperimentazione aromatico-speziata.

Insomma, lo spazio c’è per riabbracciare quei gusti che furono stile di vita per i nostri antenati.