Bursôn cavàl ad raza Morello Pecchioli È l’unico vino con nome, soprannome e cognome: Bursôn Longanesi. “Bursôn” è sia nome sia soprannome. Il Bursôn vanta una ricca parentela umana: ha un papà, uno zio, un nonno, un bisnonno e un padre putativo, suo responsabile spirituale. Non gli manca niente, nemmeno la parola. Gli esperti assicurano che i grappoli d’uva Longanesi suggeriscono ai viticoltori il momento esatto di vendemmiare. In ognuno di loro c’è un acino-spia che rimane verde mentre tutti gli altri prendono il colore della maturità. Quando anche quel chicco diventa blu come una notte romagnola, il grappolo è maturo al punto giusto. È come se dicesse: “Staccatemi dal tralcio”. E la vendemmia può cominciare. Il Bursôn ha un’altra peculiarità: porta sempre il cappello in testa. Quell’accento circonflesso sulla “o” è un marchio di fabbrica, il simbolo della sua romagnolità. È il copricapo del Passator Cortese, l’ampio feltro scuro di foggia rivoluzionaria che gendarmi papalini e austriaci guardavano con sospetto. Che cosa significa quel soprannome, Bursôn? Lo chiediamo a Daniele Longanesi, oggi padrone del fondo e continuatore della stirpe bursônica: “Di preciso non si sa. È un soprannome che si perde nei secoli. Forse fa riferimento a una borsa grande, forse al , il cavatappi, parola che deriva dal francese . In campagna tutti hanno un soprannome. A volte molto strano, come il nostro”. tirabuson tire-bouchon La storia del Bursôn è affascinante, ma va raccontata con ordine, per gradi. È talmente intrecciata con quella della famiglia Longanesi che si rischia di confondere il Dna dell’uva con quello degli uomini. La vicenda inizia nel 1913 quando Antonio “Bursôn” Longanesi, il bisnonno, acquista una casa con un po’ di campi in località Boncellino di Bagnacavallo. I Longanesi si erano trasferiti a Bagnacavallo dal Ferrarese a metà dell’Ottocento: da Romagna a Romagna. Non apparteneva alla stirpe dei Bursôni, ma a un ramo della schiatta quel Leo Longanesi, nato a Bagnacavallo nel 1905 e morto a Milano nel 1957, che fu celebre scrittore, giornalista, pittore, editore e autore di aforismi fulminanti. Vicino al casolare acquistato dal capostipite dei Bursôn di Boncellino c’è un roccolo con una quercia, attorno alla quale è avviticchiata una strana pianta di uva selvatica che tutti credono negretta e non le danno particolare importanza. Produce grappoli a bacca nera e dolce, un richiamo irresistibile per storni, merli e tordi che accorrono per beccarla, finendo prima impigliati nelle reti e poi in padella. Quando il podere passa al figlio Aldo (il nonno del vino), la vite continua a svolgere la sua doppia funzione: procacciare uva da esca per i volatili e, torchiata con altre dei vigneti intorno, produrre un vinello contadino di pianura, un succo senza infamia e senza lode, giusto quello che serve per il fabbisogno familiare. Ad accorgersi che il vino prodotto solamente con quell’uva non è “normale”, che è di molti gradi e gradini superiore ai mosti di tutte le altre uve che prolificano sui terreni alluvionali tra il Lamone e il Senio, è la terza generazione dei Bursôn: Antonio, papà del vino, e Pietro, lo zio. Antonio Longanesi, classe 1921, nipote del capostipite dal quale eredita nome e soprannome, ha il geniaccio del vignaiolo nel sangue. Incuriosito da quell’uva così diversa dalle altre, decide di sottoporla alla prova del densimetro. Daniele, nipote di Antonio e figlio del di lui fratello, Pietro, racconta:“La prima volta che lo zio vinificò quell’uva da sola, pigiando un grappolo, mise il liquido nel densimetro che segnò 14 gradi. Qui in pianura, a quel tempo, i contadini, erano abituati a far festa quando la canina e l’uva d’oro toccavano i 7-8 gradi. Lo zio non si scompose e buttò il densimetro da parte. ’ ’, commentò e andò a farsene prestare un altro. Seconda prova, stessa gradazione: 14 gradi. Ci volle una terza misurazione per convincerlo: ’ ’, esclamò finalmente persuaso. Fu un buon profeta: il Bursôn è un purosangue amichevole e caloroso, ma anche rude, capace di ribellarsi se non trattato come si deve. Parla romagnolo, ha l’anima romagnola: simpatica, ospitale, ma pronta alla ribellione. Il bursôn è piacevole, godurioso alla beva, ma con molta personalità, di grandissima struttura”. ’L pruvêtt l’è rót Quést l’è un cavàl ad raza Convinto di avere per le mani un , Antonio ricorre all’aiuto del fratello. Pietro, maestro nell’innesto delle viti, con le barbatelle di quel vitigno selvatico abbarbicato alla quercia impianta un vigneto. Siamo intorno al 1950. Nasce il primo Bursôn. A battezzare così quel vino “negretto” sono gli amici dell’osteria che Antonio frequenta, portando con sé un paio di bottiglioni per far gustare alla compagnia quant’è buono il suo vino. Passando di gola in gola tra quei romagnoli, grandi lavoratori, allegroni e sanguigni, il si fa una fama. E ai colleghi viticoltori che gliele chiedono, Antonio regala volentieri le barbatelle del suo Bursôn. È così che il vitigno si diffonde rapidamente nei campi intorno a Bagnacavallo e nei comuni vicini. cavàl ad raza vén del Bursôn Antonio oggi ha novantasei anni, perde qualche colpo, ma è ancora vispo. Fino a poco tempo fa girava in bicicletta per le campagne di Bagnacavallo. Ha quasi un secolo di zolle alle spalle. È una quercia, forte come la pianta secolare alla quale, nel podere di Boncellino, si aggrappava la vite dell’uva bursôna, l’ultima della sua specie. Una vite che non voleva morire senza lasciare un ceppo per continuare a rallegrare il cuore degli uomini: “ " (salmo 104). Vinum laetificat cor hominis Il vecchio Bursôn è orgoglioso della sua creatura. “Ha quasi cent’anni”, testimonia Daniele, “fa fatica a reggersi in piedi, ma non molla. Era presente anche all’ultima vendemmia per dare il suo contributo.” Terzo tempo. A cavallo degli anni Settanta-Ottanta entra in scena il padre putativo, la guida spirituale del vino Bursôn: Sergio Ragazzini. Sergio, all’epoca, è un giovane enologo innamorato della sua terra, della sperimentazione e dell’insegnamento. È docente all’istituto professionale per l’Agricoltura e l’ambiente di Faenza, il Persolino-Strocchi, a tre chilometri dalla città, sulla strada per Brisighella. Ed è il coordinatore del vigneto e della cantina didattica dell’istituto. Ragazzini, che si era già messo in luce per aver prodotto il primo passito di Albana, si incuriosisce e si interessa a quell’uva di Bagnacavallo, suo paese natale. Comincia a studiarla e a sperimentarne qualità e limiti. diventato: di grande personalità, fruttato, seducente.” Si innamora della sua forte personalità, cerca di domare quel cavàl ad raza impetuoso, ma selvaggio. Gli dà delle regole. Quando arriverà a mettergli, una ventina d’anni dopo, le briglie del disciplinare, il purosangue sarà domato. “Man mano che prendevo confidenza con quest’uva”, racconta Ragazzini, oggi settantenne, “mi convincevo sempre più che poteva dare un vino particolare, un vinone in grado di regalare molta soddisfazione, da bere in occasioni particolari. Elaborai un progetto. Sognavo quel vino che, poi, è Il moderno Bursôn nasce nel 1996 quando, con Roberto Ercolani, un amico viticoltore, dopo varie prove Ragazzini decide che il vino è pronto a debuttare ufficialmente. “Lo chiamammo Bursôn in onore di Antonio Longanesi. Ma non sapevamo ancora bene cosa fosse quell’uva. Pensavamo a un cabernet.Tre anni dopo nasce il Consorzio di Bagnacavallo al quale aderiscono quindici produttori. Nel 2000 facciamo esaminare il Dna dell’uva all’Istituto di San Michele all’Adige. Sorpresa. Nessun vitigno conosciuto ha quelle caratteristiche. È autoctono al 100 per cento. E ha quella straordinaria particolarità genetica dell’acino verde che rimane tale anche quando tutti gli altri sembrano già maturi. L’uva salvata da Antonio Longanesi viene iscritta al Registro delle Varietà con il cognome dello scopritore: Uva Longanesi. Il nome del vino, Bursôn, depositato, registrato e poi concesso in uso gratuito dalla famiglia Longanesi al Consorzio di Bagnacavallo, tutela la sua tipicità. Così, questa vite e il suo vino sono legati in modo indissolubile al territorio di Bagnacavallo e alla pianura romagnola limitrofa.” Un risultato niente male per il vecchio Bursôn che a novantuno anni, nel 2013, è nominato Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica “per il contributo dato allo sviluppo della viticoltura e alla valorizzazione dell’enologia italiana”. Chissà che soddisfazione... Ragazzini sorride: “Ogni volta che lo incontro mi punta l’indice contro: ’ ’.Tu mi hai rovinato il mio vino. Lui, da buon contadino, lo faceva dolcino. Il Bursôn è diventato un vino imponente. Te t’ m’ arvinà el mi vén Non teme confronti neppure con i vini più prestigiosi. Recita molto bene la sua parte, anche in cucina, come dimostrano i ristoranti di Bagnacavallo: il risotto con il Bursôn è una meraviglia e così la tagliata e lo stracotto al Bursôn e altri piatti ancora. Il Consorzio di Bagnacavallo è diventato un punto di riferimento fondamentale per la valorizzazione del territorio e dei suoi prodotti tipici, per l’economia, la cultura, il turismo. E non solo di Bagnacavallo, ma anche dei comuni limitrofi: Cotignola, Faenza, Fusignano, Godo, Lugo, Ravenna, Russi. Sono quindici le aziende agricole consorziate. Si va da chi produce cinquecento bottiglie all’anno a chi ne produce ventimila”. Sergio Ragazzini fa il ritratto del grappolo Longanesi:“È mediamente spargolo, lungo 20-25 centimetri. Stiamo lavorando per ridurlo. Togliendo al momento della fioritura, a fine marzo, le prime tre foglie attaccate al grappolo, che servono solo a fare ombra, riduciamo i chicchi e otteniamo un grappolo più spargolo che, oltretutto, si asciuga prima in caso di pioggia. Le forme d’allevamento? Cordone speronato, cortina semplice, guyot. Doppia la vendemmia: a metà settembre si raccoglie l’uva destinata all’appassimento, dopo 35-40 giorni quella rimasta sulle piante”. L’antica vite abbarbicata alla quercia del roccolo, la “mamma” di tutte le uve Longanesi in circolazione, non c’è più. È morta nel 1956. Accanto alla quercia secolare c’è un cartello, una sorta di epigrafe come quelle che si trovano sui muri delle case in cui sono nati o morti personaggi famosi. Recita: “Questa è la quercia dove fu scoperto e salvato l’antico vitigno Uva Longanesi”. Daniele Longanesi precisa:“Il primo vigneto impiantato da mio padre e dallo zio Antonio gode invece di ottima salute. Ha viti alte, molto grosse, con un diametro di 15-20 centimetri. Sono stortignaccole, sghembe, ma sono molto belle da vedere. Portano addosso le cicatrici del grande freddo dell’85. Fu la neve a salvarle, altrimenti sarebbero morte tutte. Il vino che otteniamo da questa storica vigna - che produce 120 quintali, come da disciplinare - lo imbottigliamo con l’etichetta nera”. Due le tipologie di Bursôn in commercio: il Bursôn etichetta nera, il più pregiato, ottenuto da uve fatte appassire e maturato per due anni in fusti di legno. Il risultato è un vino di grande personalità, carismatico. Rosso intenso, al naso lascia emergere sentori di frutta matura, amarene sotto spirito, confettura di more, cioccolato e liquirizia. Entra in bocca con potenza e calore, ma con la morbidezza dei tannini smussati nelle botti di rovere, senza perdere stile ed eleganza. Si abbina a tagliatelle con ragù importanti, brasati, stinco e guanciale di maiale, piatti di cacciagione. Ottimo col cinghiale. Da provare con la fiorentina ai ferri e sale di Cervia. Poi c’è il Bursôn etichetta blu, da uve che non fanno appassimento: meno impegnativo, ma assai gradevole, con richiami di fiori e frutta fresca. È un vino che fa festa, compagnia, perfetto da accostare alle pappardelle con ragù alla bolognese, alle lasagne al forno, a un bel pollo alla griglia, agli arrosticini di pecora. Daniele Longanesi è orgogliosissimo del fatto che uva e vino portino il nome e il soprannome della sua famiglia. È sicuro che il Bursôn resterà nella storia enologica d’Italia.“Anche tra mille anni si farà questo vino. Dire che ne sono molto contento e fiero, è dire poco. Quando nel 1968 cominciai a fare il vignaiolo, scoprii di essere sempre più sensibile al fascino della vite. Mio zio? All’inizio combattei parecchio con la sua mentalità di vecchio agricoltore. Lui attaccherebbe i grappoli ai tralci invece di toglierli. Anche a me disse la stessa cosa che disse a Ragazzini: ’ ’. Bella lingua il romagnolo, con quattordici vocali tutte piene di accenti. Il Burson parla questa lingua. E pensare che in un convegno qualcuno sospettò che l’uva Longanesi fosse un falso frutto. Ci pensò Mario Fregoni, illustre agronomo piacentino, a sistemare le cose. Masticò un acino e sputando i semini sentenziò: ’Ha i vinaccioli, quindi è un frutto’. Quando racconti la storia del Bursôn all’estero colpisci nel segno, forse perché c’è più sensibilità verso queste vicende umane legate alla terra. Giappone, Germania e Belgio ci danno le maggiori soddisfazioni. Stiamo compiendo prove di riduzione del vino per ottenere un composto dolce da stendere su frutta e panna cotta. Il risultato è una cremina che profuma e ha il gusto di frutti rossi, squisita. Dovreste assaggiare le pere volpine, un’antica varietà di pere romagnole, a bagno nel Bursôn. Spettacolari!” Te t’ m’ arvinà el mi vén