Quando eravamo alle elementari, e didattica e stagioni non erano squinternate come ora, la maestra in autunno ci faceva studiare a memoria San Martino di Giosuè Carducci: “La nebbia a gl’irti colli / piovigginando sale / e sotto il maestrale / urla e biancheggia il mar; / ma per le vie del borgo / dal ribollir de’ tini / va l’aspro odor de i vini / l’anime a rallegrar...”.
Carducci amava il vino come un fratello. Era l’amico che gli regalava gioia, il confidente, il complice: “E poiché il vino c’era / riempii la mia coppa. / Come pazzo cantando attesi / l’alba lunare: / a canzone finita i miei sensi / se n’erano andati”. Inebriato dalle brume e dai profumi vinosi di Bolgheri, anche se il supertuscan era di là da venire, il poeta pescava versi gettando l’amo nel Chianti, nel Lambrusco e nella Vernaccia che si faceva mandare a botti qual pagamento della sua collaborazione a “Cronaca bizantina”.
Ma ecco, a Roma, il Carducci che non t’aspetti. Sottobraccio ad Adele Bergamini, amante e musa, inebriato dal Ponentino e stordito dalla fascinosa scrittrice rossa di capelli, il poeta si accosta al gin. Lo beve, lo ribeve, lo riribeve. Ne subisce l’infido fascino e racconta l’esperienza organolettica in sei versi: “Quanto azzurro d’amori e di ricordi, / Gin, infido liquor, veggo ondeggiare / nel breve cerchio onde il mio gusto mordi: / o dolci selve di ginepri, rare, / a cui fischian nel grigio ottobre i tordi / lungo il patrio, selvaggio, urlante mare!”. Un sommelier a rima alternata.
Il gin nasce olandese alla metà del Seicento, cresce con disperazione nell’Inghilterra del Settecento, si redime nell’Ottocento, diventa un liquore planetario nel Novecento. Fu un medico olandese di origine tedesca, Franciscus Sylvius de le Boë, docente di medicina all’università di Leida, a correggere e ingentilire la pesante acquavite di cereali, ricavata dalla macerazione prima e dalla distillazione poi del granoturco o dell’orzo con il malto, tradizionalmente bevuta nei Paesi Bassi. L’illustre professore aggiunge bacche di ginepro già nella macerazione dei cereali.
Sulle proprietà medicamentose del ginepro la storia offre testimonianze da vendere fin dall’antico Egitto. La più interessante, per noi italici partigiani, risale a un manoscritto salernitano del 1055 ritrovato in una biblioteca tedesca, il Compendium Salernitanum. Tra le infusioni si cita un liquore che i monaci campani ottenevano estraendo, per distillazione con il vino, i principi attivi delle bacche di ginepro.