il lato amaro dello zucchero
AIS Staff Writer

La pratica dello zuccheraggio è proibita in Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro e in alcune regioni della Francia, mentre in tutte le altre nazioni europee è una prassi consueta e legale. Questa difformità legislativa, in vigore da molto tempo, non sembra sia stata del tutto digerita e la contrapposizione tra vino del Nord e vino del Sud, nonostante gli abbracci di rito tra i produttori, rimane una barriera etica e morale, insieme a un diffuso, ma latente, dissenso d’utilizzo.

Qualcuno soffia sotto la cenere e gli italiani si stanno velocemente attizzando. Tutto nasce dalle negoziazioni attivate dalla Commissione Europea della Sanità a proposito delle regole sull’etichettatura, per indicare gli ingredienti degli alimenti, incluso il vino. Gli italiani CIA, Confcommercio, Coldiretti, Confagricoltura e Alleanza delle Cooperative Italiane hanno sentito odore di bruciato, come se qualcuno stesse giocando a carte in modo scorretto.

A parte le considerazioni sugli ingredienti del vino in etichetta, da alcuni ritenuto un principio di civiltà e trasparenza, per altri, e forse anche un po’ per noi italiani, come un nonsense, e per altri ancora, addirittura, un attacco al mondo dei consumatori del vino; ordunque, visto che di quella lista di ingredienti prima o poi si dovrà digerirne la presenza nelle patinate etichette dei grand cru di Borgogna e Bordeaux, nei reali Barolo e Brunello di Montalcino, passando per Champagne e Porto Vintage, è bene che la cosa sia fatta con chiarezza.


Invece, l’Europa del rigore, delle frontiere a maglie strette e del rapporto deficit/pil visto come la sbarra di una prigione del 41bis, non mostra la stessa rigidità con la lista degli ingredienti.

Vanno bene tutti, ma lo zucchero no… non lo avevo considerato, nemmeno fossero i parolieri di Renato Zero. Lo scopo è chiaro, non vogliono mettere a nudo il loro vino, non vogliono che si sappia che ha ricevuto l’aiutino Chaptal e che l’alcol indicato non è l’espressione della naturalità acino, glucosio, fruttosio, lievito, fermentazione.


Per la verità, l’incontro dello zucchero con il vino ha radici molto lontane. Già i romani aggiungevano il miele, ma con tutt’altra motivazione. Nel 1776 nel bacino parigino, dove i vini raggiungevano a fatica i 7 gradi di alcol, ci sono nel mosto tracce d’uso di zucchero di canna, un prodotto all’epoca alquanto costoso, che Jean-Antoine Chaptal renderà accessibile a tutti, a buon prezzo, estraendolo dalla barbabietola. Il vero boom dello zuccheraggio fu conseguenza della crisi viticola francese tra il 1903 e il 1910 e dell’intervento legislativo che ridusse il costo dello zucchero, dimezzando le imposte che lo gravavano. In quel periodo in Francia il prezzo era di 65 franchi al quintale, in Italia di 152: già questo fu un motivo di attrito mai attutitosi. L’Italia che cosa fece? Zucchero no, se mai alla bisogna l’MCR, il mosto concentrato rettificato, peraltro molto più costoso e problematico, che sembrava potesse favorire i caldissimi vigneti del Meridione. Sia chiaro che l’uso dello zucchero, come afferma Peynaud, non è una frode tout court, il problema è che manca la garanzia del superamento del confine d’uso, quindi il passaggio verso la demonizzazione è colpevolmente assegnabile agli ingordi commercianti imbottigliatori.


La proposta odierna si avvia a diventare un’idea un po’ piratesca, cioè non obbligare i produttori delle terre fredde a indicare l’utilizzo di zucchero nell’elaborazione del vino. Ancora una volta si cerca di legiferare con pesi e misure diseguali, non tutelando chi fa della naturalità in vigna e in cantina una filosofia, anche se il prodotto finale va a confrontarsi con vini aiutati dallo zucchero, subendo di fatto una concorrenza sleale, una specie di “aiuto di stato“. Crediamo che la posizione della CIA, Coldiretti e degli altri sia sostenibile e per una volta anche ben focalizzata in chiarezza e determinazione. Poiché tutti parlano di trasparenza e di tracciabilità, reputiamo giusto che i consumatori conoscano com’è stato vinificato il vino che acquistano; è più che opportuno che l’etichetta, qualora dovesse riportarne gli ingredienti, così come accade per tanti altri alimenti, non nasconda d’aver impiegato lo zucchero e, aggiungiamo, averlo “rumato” ben bene, come dicevano dialettalmente i nostri vecchi (del vino), quando anche in Italia era una pratica più dettata dall’ignoranza enologica che da una necessità derivante da una problematica maturazione dell’acino.


Ben venga l’indicazione dello zucchero qualora aggiunto, senza scandalizzarsi, al pari dell’indicazione “contiene solfiti”, che nel vino sta quasi diventando un drammatico e “velenoso” ingrediente, tranquillamente impiegato anche nei vini biologici (Regolamento di esecuzione UE n. 203/2012 dell’8 marzo 2012, al punto 7 dell’allegato VII bis), a livelli inferiori nel vino naturale. C’è anche tutta la serie degli E220, 221, 222, fino al 228 e ancora, per alcuni alimenti, dalla frutta essiccata alla senape di Digione, dallo stoccafisso al baccalà, fino ai pomodori secchi e ai crostacei.

Questo ci fa comprendere che essere chiari negli ingredienti non esclude il successo commerciale, anzi, diventa un appeal molto cristallino, che non dà adito a equivocanti misunderstanding. Pertanto, no alla demonizzazione dello zucchero se aggiunto al mosto, perché un bel “eno-coming out” non farebbe male a una filiera enologica che vuole nascondere la testa al pari dello struzzo.