Se qualcuno avesse detto a Gesualdo Motta, mezzo mastro e mezzo don, che un giorno le misere fave preparate dalla fedele Diodata con uova, pomodoro e cipolle sarebbero diventate roba ricercata dalla bella gente, come i nobili Trao a cui aspirava di imparentarsi, certo ne avrebbe fatto incetta. Ai tempi del romanzo di Verga, invece, la fava secca era la paga alimentare dei braccianti: mezzo “coppo”, cinquecento grammi a testa, da cuocere con un po’ di verdura. A Modica, e nel resto della provincia di Ragusa, la chiamano ancora così: fava cottoia, fava da cuocere; così tenera da non aver bisogno di ammollo prima di essere lessata in pentola. Doveva conoscerla Verga, nato vicino al Ragusano, in quelle campagne di Vizzini cui darà sembianze marittime nei Malavoglia. Prima delle fave di cacao, c’era lei, la cottoia, a tenere in piedi l’economia modicana: foraggio per gli animali, fertilizzante del terreno, carne dei contadini. Quello che Verga non poteva immaginare era la sorte dell’umile baccello, destinata, con più successo di Gesualdo, a elevarsi da modesto mastro delle sementi a nobile don dei legumi, coronato dall’investitura di Slow Food. È questa, in fondo, la storia di tanti gioielli dell’isola, impolverati dalla calce di tanti mastri, alle dipendenze di rapaci don della politica, quelli che nei decenni più furiosi del Novecento soffocarono col cemento ettari di buona terra, di cui molti, adesso, invocano la liberazione. In Sicilia, da sempre è la terra la misura di tutte le cose: abbandonata prima, rivendicata poi; spesso cementificata, raramente liberata.