Alla luce delle incessanti e innumerevoli innovazione che stanno tracciando la nostra storia recente, con le intelligenze artificiali, la nuvola informatica, i droni, l’e-commerce, l’auto senza guidatore, per citarne alcune, è lecito domandarsi: che cosa accadrà al mondo del vino?
La risposta è chiara: nel 2040 l’industria del vino sarà diversa. Non sappiamo di quanto, ma il cambiamento sarà di certo rilevante.
Per saltare nel futuro è opportuno prendere un po’ di rincorsa, facendo un passo indietro. Agli inizi degli anni Novanta, il mondo del vino rosso era avvolto nell’aureola del millesimo 1985 e nella performance del Sassicaia, l’uso della barrique da legno nuovo di foresta francese era anelato da tutti e molti la usavano senza sbandierarlo ai quattro venti perché non ancora padroni del suo impiego. Per contro, quegli enologi che presto diventeranno wine-maker stavano per assurgere a una dimensione poco al di sotto del santo di turno, celebrati a tal punto che prima di parlare di un vino era quasi d’obbligo targarlo col nome del suo enologo: alcuni conquistarono copertine sulle riviste, altri furono premiati con tutti i crismi della scenografia cinematografica. Secondo Luigi Veronelli altro non dovevano essere che dei medici condotti del vino, col compito di aiutare il vignaiolo a curare le imperfezioni, allo stesso modo in cui si va dal medico per ovviare al malanno di stagione. E quel medico la copertina e l’articolo giornalistico non li otteneva per aver svolto con coscienza e professionalità il proprio lavoro, piuttosto, se sbagliava una diagnosi o danneggiava irrimediabilmente il paziente.
Quegli anni furono segnati anche dal dilagante sistema dei Supertuscan, che non toccò solo il reparto del vino rosso: il bianco iniziò ad assorbire di tutto e di più dalla sosta nel legno nuovo, e lo chardonnay si fece dilagante e imperante, pure in regioni notoriamente rossiste, come il Piemonte e la Toscana. Lentamente, ma con tragica costanza, si seguirono le voci delle sirene enoiche del mondo anglosassone e americano, i vini si arricchirono di densità colorante, il cabernet sauvignon e il merlot divennero irrinunciabili per il produttore che desiderava parlare un linguaggio internazionale, la sperimentazione divenne quotidiana, con miscelazioni anche stravaganti. Lo chardonnay e il cabernet sauvignon approdarono anche nei climi caldi del Meridione e il syrah fu accolto come un nuovo messia.
Anche i vitigni autoctoni furono trattati con i principi dell’enologia del Nuovo Mondo, così il Nero d’Avola Duca Enrico divenne uno spettacolare cru che inneggiava al syrah, il Sangiovese toscano si presentava sempre più annerito, il nebbiolo del Barolo era massaggiato nelle barrique, mentre il mitico Bartolo Mascarello si poneva all’opposizione con il Barolo 1999 etichettato “No Barrique No Berlusconi”. I vini rossi, così, si allontanarono pericolosamente dal territorio di provenienza; si faceva passare il messaggio che la mano dell’enologo era fatata, e poi c’erano la tecnica di cantina, l’estrazione fenolica, l’uso del red hunter e tanta promozione con lustrini, ricchi premi e cotillon. Tutto andava assomigliandosi; prima si degustava lo stile dell’enologo, poi si poteva tentare di parlare di vino e terroir, però davvero con difficoltà.