tanto va la birra all'uva
Riccardo Antonelli

“La vera abilità sta nell’utilizzare tutti i mezzi conosciuti e a disposizione; l’arte, l’ingegno consistono nell’operare malgrado le difficoltà e trovare poco o niente d’impossibile” (Napoleone Bonaparte). La possibilità, in quanto tale, è ciò che scuote e smuove il curioso, l’ingegnoso. Portando questo concetto in ambito brassicolo, dovremmo immergerci nel vortice caotico, colorato, a volte isterico, che costituisce il mondo delle birre artigianali italiane. La mia è una questione personale. La possibilità di creare con le mani qualcosa di edibile (sì, anche buono, ma all’inizio è un concetto secondario, seppur lodevole) mi ha sempre scosso emotivamente. Così, da “sbarbato incosciente” ricordo di aver giocato (termine perfetto) in ambiti autorevoli, quali la cucina, la pasticceria, la produzione casearia e quella liquoristica, fino ad approdare con la maturità degli studi a quella enologica, una saggia dama da conquistare. Qui ho trovato le maggiori soddisfazioni e ho collezionato vendemmie ispirate nel tentativo di trovare, di volta in volta, il modo più curioso di ottenere il miglior prodotto pensabile. Non avevo però considerato ciò che avrebbe cambiato totalmente il mio modo di pensare. Qualcosa che condiva giornalmente il mio lavoro, con il suo lustro dissetante e la sua amichevole spensieratezza. I vignaioli neozelandesi, sapienti uomini di fatica e di scienza, solevano ricordare: “Ci vuole tanta birra per fare del buon vino”. La pausa, il momento di ristoro mentale e fisico, è così piacevole perché in quell’istante siamo vulnerabili. Senza armi, mi avvicinavo alle meraviglie brassicole, scoprendone di volta in volta le plurime folli intuizioni. Il giorno in cui ho capito quanto potesse essere divertente fare della buona birra, ho accantonato la saggezza e la lungimiranza del vino, per accogliere l’estrosità e l’eleganza di questo nuovo secondo amore.