Mangiare per strada non è mai stato così di tendenza. Ripercorrendo le strade della storia, ci si accorge di quanto questa abitudine fosse diffusa, praticata e amata fin dall’antichità.
lo street che food
Morello Pecchioli
Ogni anno, a ferragosto, migliaia e migliaia di persone affollano Grazie, borgo in riva al Mincio alle porte di Mantova, per la festa dell’Assunta. Tre gli appuntamenti imperdibili: la messa nel trecentesco santuario della Beata Vergine delle Grazie fatto erigere dai Gonzaga; la passeggiata tra le opere d’arte che i madonnari realizzano con i gessetti colorati sul sagrato del santuario; lo straordinario panino lungo una spanna e imbottito di rotelle di cotechino che paiono dischi volanti. Claudio Somenzi vende questa specialità da cinquant’anni. Il banchetto sulla strada dirimpetto al santuario è diventato un bancone con spina per la birra, dietro al quale vezzose donzelle faticano a star dietro alle richieste degli avventori. Una locandina recita:“Piatto di strada: panino col cotechino”. Da qualche anno Claudio, specialista anche in tortelli alla zucca e in stracotto d’asino, ha aggiunto la scritta “street food”. “Ma è solo per richiamare i giovani”, si giustifica con furbizia bertoldesca, “loro parlano così.”
Ha ragione. Oggidì se non si sputazza un po’ d’inglese in ogni cantone linguistico, si è out, tagliati fuori. Panini, polpette, arancini o qualsiasi altro alimento venduto in piazza, per strada, in fiere o mercati, da cibi di strada qual erano, sono diventati street food. Niente di male, per carità. Però si sta esagerando. Non portiamo più a casa cibo d’asporto, ma take away che mettiamo nella food bag, la sportina. I furgoncini con cucina, che in Veneto chiamano barachini, sono in via d’estinzione. Gli alimentaristi ambulanti circolano con i food truck. All’osteria o all’enoteca (pardòn, al wine shop) con il calice di bollicine (beverage?) in mano, beccoliamo snack e finger food, intimo parente, ma dotato di polpastrelli prensili, dello street food.