l'innovazione è tradizione Valerio M. Visintin Prima ancora di imparare a pelar patate e mulinar padelle, è bene che ogni chef sappia maneggiare con spregiudicatezza il vocabolo “innovazione” e i suoi derivati. È il precetto fondante di ogni Istituto o Master d’alta cucina. Costituisce l’esame più accreditato. “Sì, sì, ho già dato Innovazione e Innovazione 2.” “È difficile il secondo?” “Un incubo! Ma ho detto: ‘innovativamente’. E mi hanno dato il massimo dei voti!” D’altra parte, non se ne può fare a meno. Nelle interviste o nei fervorini di presentazione vergati dagli uffici stampa, è un passaggio obbligato. Non importa a quale scuola di pensiero si ispirino gli chef. E nemmeno quali piatti abbiano in repertorio. Ciò che conta è che siano innovativi. La parola d’ordine si è consolidata al tal punto, da tracimare nel lessico quotidiano dei nostri eroi in giacca bianca. Quando si incontrano, per strada o nei corridoi delle kermesse mangerecce, gli chef più quotati non dimenticano la lezione. “Uei, come stai?” “Innovativo, ma rispettoso della tradizione. E tu?” “Molto bene, mi sono appena innovato. Grazie.” I cronisti riportano, trascrivono e plaudono questa furia innovativa senza porsi la minima domanda. Giusto, del resto. Perché mai dovrebbero interrogarsi sul significato delle parole? Le usano e basta. In caso contrario, dovrebbero far presente che “innovativo” è un elemento inedito, che incide sullo stato delle cose e lo modifica, migliorandolo. Se questo transfer non avviene, siamo di fronte, tutt’al più, a una novità. Che per se stessa ha un valore neutro. La nostra esistenza, del resto, è attraversata continuamente da liete novelle e fetecchie nuove di zecca. Ma quanti saranno, al mondo, i cuochi capaci di esercitare questa influenza, trasformando pulsioni e ambizioni generative in una corrente stilistica, in un nuovo ordine mentale? Il mio lavoro mi trascina continuamente in giro per ristoranti innovativi. Ovunque, vedo gli stessi piatti, gli stessi risotti, gli stessi schizzi di colore alla Pollock. È una replica continua, come il palinsesto della Rai in agosto. I menu sembrano fatti col copia e incolla. I soliti piccioni, i polpi alla plancia, gli identici grissini lunghi, stretti e nodosi come giunchi. Se c’è una pasta ripiena, la chiamano “bottoni”. Se c’è una pastasciutta, è pacchero o spaghetto. Direi, metaforicamente: sempre la stessa minestra. Ma, attenzione,“minestra” è un termine bandito dal piccolo bignami del cuoco moderno. Semmai, è d’uso parlar di “brodi”. E i pesci? Esistono solo in forma “scaloppata”, a cottura lenta, a bassa temperatura, a scarsissima percentuale di sapore. Nel mare mistico della cucina innovativa, nuota una fauna di parallelepipedi. Gli chef li pescano all’amo dall’abbattitore. Curvi sul piatto come se stessero ricamando un’ikebana, li assemblano graziosamente, poggiandoli con certosina delicatezza su intrecci di verdurine crude, circondate da virtuosismi cromatici. Ultimamente, nei ristoranti più innovativi di Milano, va per la maggiore la cara e vecchia cacio e pepe, piatto rudemente dialettale della cucina capitolina. Per renderla creativa e geniale come si conviene, che cosa si sono inventati? Innanzitutto, gli chef la preparano peggio di come la farebbe la più sbracata massaia de Trastevere. Alcuni, amanti delle creme, ne fanno una versione estenuata, esageratamente liquida. Altri, più inclini al pappone, la restringono, costringendo la pasta ad avvinghiarsi su se stessa in un colloso abbraccio. Il colpo di genio, però, risiede nel tocco finale: l’aggiunta sapiente di un ingrediente scelto a casaccio. Al Bar a Mare me l’hanno servita con due barbe di gamberi crudi, per esempio. A L’Alchimia, con bottarga e quattro cozzelle sgusciate. Ai Tre Cristi col cioccolato. Ma quindi? Difficile trarre una morale. Forse, la lingua si rinnova senza darmene avviso. Forse “innovativo” significa corrivo alle mode, copiativo, imitatorio, privo di idee. O, forse, dovremmo fare un passo indietro. Lasciando le innovazioni a chi ne ha la rara vocazione. Per paradosso, se veramente fossero tutti innovativi, gli chef, non lo sarebbe nessuno. Perché il genio si distanzia dalla folla. Attendo il momento in cui mi porteranno in tavola una cacio e pepe con ombrina scaloppata e verdurine crude, che chiameranno “croccanti”. Sento che quel malinconico giorno non è lontano.