C’era una volta un vino che non si esauriva mai. Qualcuno ci faceva il bagno riempiendo le tinozze; qualcun altro ci annegava il pavimento della cantina. Lo si poteva condire d’oppio, o di ferri di cavallo. Un uomo ne sputava tre sorsate nel fuoco della cena; una donna, invece, lo centellinava, per sopravvivere alla fame. Nonostante le varie sorti, quel vino non finiva mai, abbondante e immacolato alla fine com’era stato all’inizio. Vecchio di migliaia di anni, i secoli gli hanno affinato l’ingegno: non essendoci botti, vetri, né turaccioli capaci di tanto miracolo, ha preso casa tra le pagine dei libri, dove, a ogni nuovo lettore, celebra puntuale la benedizione della propria rinascita. Proprio loro ci scuseranno per aver esordito con la più classica delle formule, ma secondo la tradizione berbera a nessun narratore è consentito raccontare una fiaba prima che essa sia stata sigillata da una formula d’introduzione. Omettere la formula significa comportarsi da stolti, e pur non essendo noi berberi, non vorremmo essere additati come sciocchi, come accadde invece a una certa famiglia che si era messa in testa di chiamare il futuro erede Cicco Petrillo.
Questa era infatti l’idea della sposa, e a questo pensava giù in cantina, mentre spillava vino per gli ospiti del banchetto.Tanto rimuginava su quel figlio immaginario, che il poveretto aveva già percorso tutti i passi della sua futura esistenza, dalla nascita fino all’inevitabile morte, il qual pensiero aveva tanto addolorato la donna da gettarla in un mare di immotivati pianti. Le lacrime, invece, avrebbero dovuto essere per il buon vino, lasciato scorrere sul pavimento; la madre, scesa a vedere che fine avesse fatto la figlia, fu presa dal medesimo sconforto, e così il padre, richiamato dai lamenti. Solo il futuro marito, sconvolto da tanta cretinaggine, e dagli ettolitri di buon rosso persi dal rubinetto, si allontanò a passo svelto, giurando a se stesso di tornare solo se si fosse imbattuto per la strada in tre scemi di superiore idiozia.