quel ghiottone di Monelli Gherardo Fabretti “Così andai a letto alla Morra dopo avere spento il tepore del barolo con un bicchiere di facile grignolino (il che sarebbe come uscire da una reggia ed entrare nella locanda di fronte; ma una locanda linda, odorosa di spigo, con un letto enorme e fresco).” A leggere oggi le pagine de di (1891-1984), traboccanti di termini aulici, sinestesie, assonanze e citazioni letterarie, si fatica a riconoscervi una semplice cronaca su cibo e osterie; eppure quell’esorbitante e densa bizzarria, datata 1934, rappresenta uno dei passi più importanti dell’Italia nel campo del giornalismo enogastronomico. Il ghiottone errante Paolo Monelli Nato a Fiorano Modenese alla fine dell’Ottocento, figlio del direttore dell’ospedale militare di Bologna, il giovane Monelli alla penna del giornalista preferiva in realtà quella dell’alpino. Dopo la maturità classica, bocciato all’esame di ammissione all’Accademia Militare di Torino, ripiega sulla laurea in Giurisprudenza, senza mai accantonare quella che da sempre considerava la sua legittima vocazione. Dopo un breve esordio da redattore per “il Resto del Carlinoˮ, allo scoppio della Prima guerra mondiale si arruola volontario nel 7° Reggimento alpini. Tra i pochi sopravvissuti del battaglione Val Cismon, fatto prigioniero dagli austriaci nel Vicentino, a Castelgomberto, è rinchiuso nella fortezza di Salisburgo, da cui tenta di evadere due volte. L’incontro con un compagno di prigionia, già redattore della “Gazzetta del Popolo”, al termine della guerra gli varrà le prime corrispondenze da Vienna. Mario Missiroli, direttore de “il Resto del Carlino”, lo invia a Leopoli per seguire i lavori della commissione incaricata di ristabilire i confini della Seconda Repubblica di Polonia. Già noto per il suo romanzo-diario di guerra , pubblicato da Cappelli, Monelli dal 1921 al 1929 passa dalle stanze de “La Stampa”, chiamato da Alfredo Frassati, a quelle del “Corriere della Sera” di Ugo Ojetti, salvo essere estromesso da entrambe, insieme ai rispettivi direttori, durante le epurazioni di Mussolini. Le scarpe al sole Ironia della sorte, gli articoli del 1934 che compongono , riuniti l’anno dopo in un vero e proprio libro, edito da Treves, nascono su iniziativa del più fascista e ortodosso dei dirigenti, , a capo di quella “Gazzetta del Popolo” dove tutto era cominciato, dieci anni prima. Il viaggio culinario in sedici puntate che porta Monelli in giro per il paese, con il vignettista (1897-1988), gli era stato infatti commissionato nel 1934 dallo zelante responsabile del primo quotidiano italiano stampato a colori. Il ghiottone errante Ermanno Amicucci Giuseppe Novello Preceduto per una manciata di anni da , autore de , stampato per le Edizioni d’Italia nei primissimi anni Trenta a Perledo (Lecco), Monelli per i suoi articoli si rivolge all’unico precedente illustre disponibile: la cronaca scritta dall’inviato del “Berliner Tageblatt” : . , pubblicata da Voghera nel 1909 con introduzione di Gabriele D’Annunzio. Umberto Notari Il giro d’Italia… a tavola Hans Barth Osteria Guida spirituale alle osterie italiane da Verona a Capri Non stupisca l’interesse del mondo giornalistico per il cibo. L’alimentazione era, ora come allora, argomento di massima importanza. “Col gusto e lo stomaco non si scherza”, scriveva nella Prefazione alla del Touring Club (1931), una mastodontica indagine (fonte preziosa per lo stesso Monelli) su cucine e osterie, basata sui questionari inviati dalle migliaia di membri dell’associazione da tutto il paese. Arturo Marescalchi Guida gastronomica d’Italia Né tantomeno scherzava il regime: il mito della sovranità alimentare grazie alla contrazione del commercio con l’estero, seguito alla crisi del 1929, aveva trovato terreno florido nel 1935, anno delle “inique sanzioni” appioppate all’Italia per l’ingiustificato attacco all’Etiopia. Si capisce così, con la magra disponibilità di cibo d’importazione, il vasto interesse della dittatura per la cucina di casa e i prodotti del territorio, destinati - s’intende - a chi avesse sufficiente denaro da non dover ripiegare su avanzi e surrogati. Diventa allora più comprensibile la manica larga del direttore Amicucci, irriducibile fascista della prima ora, nel finanziare la “gitarella” di Monelli. Quei fondi, d’altro canto, provenivano dalla società proprietaria del giornale, la Società Idroelettrica Piemonte, già nell’orbita dell’IRI, e dal quel colossale ente pubblico tramutata in una delle principali protagoniste della battaglia per l’autarchia energetica del paese. Solo seguendo questo tortuoso solco si spiegano la genesi dell’opera e le motivazioni di chi aveva concesso, a un giornalista e a un vignettista, di essere pagati per andarsene in giro per l’Italia a mangiare e bere gratis. Solo così, inoltre, si spiega la sortita culinaria a , a metà del libro, di certo non motivata dalla ricerca di antiche ricette, essendo la cittadina dell’Agro Pontino ancora fresca del cemento posato nel 1933. Ha un bel daffare Monelli per rendere legittima la presenza di quella neonata città in mezzo a nomi come Barolo, Montepulciano e Palermo. Giustificando la tappa come volontaria pausa dalla “tirannia delle cucine locali”, Sabaudia cela il suo status di monumento della propaganda mussoliniana dietro la più innocua perifrasi di “eclettica provincia”. Sabaudia Qui un’improbabile trattoria bolognese (sic!) offre, oltre alle classiche tagliatelle, un’inverosimile congiunzione di “pesce alla veneta, pollastrino alla romana, gelati alla siciliana, serviti da un garzone napoletano”, il tutto innaffiato da un vino piemontese di cui – per dar più credito alla storia – non aveva chiesto il nome. Un diorama delle bontà nazionali, inventato di sana pianta, che farà da modello al vero fatto costruire due anni dopo da Mussolini, al Circo Massimo di Roma: una fiera di specialità regionali, servite in trattorie posticce, per propalare al mondo l’immagine di un’Italia genuina e ben nutrita. Si colloca qui la paternale sui “piccoli borghesi che devono fare economie, e le fanno sulla qualità dei cibi e sui condimenti”, così diversi dal virtuoso popolo che “sa, anche se non lo sa in latino, che ; e le economie non le fa sul mangiare”. villaggio rustico primum vivere, deinde philosophari Il popolo, invece, le economie le faceva eccome; solo, Monelli faceva finta di non saperlo, in special modo in un luogo così particolare del libro. Il capitolo su Sabaudia, infatti, è un vero e proprio intervallo pubblicitario, un malconcio tentativo di nascondere quello che già allora era uno dei più grandi fallimenti del fascismo: assicurare a ogni cittadino il completo benessere alimentare. Dietro l’idillico quadro di Monelli si celava ben altra verità: molti italiani, come ha scritto Alberto De Bernardi, “mangiavano peggio che nella tanto esecrata Italia giolittiana”. La stessa preponderanza, nel viaggio, delle tappe centro-settentrionali rispetto a quelle meridionali trova una spiegazione nella profonda divisione tra le due parti della Penisola. Carne, latte, uova, formaggi, zucchero: tutto seguiva un’implacabile parabola discendente man mano che dalla pianura padana si volgeva a Mezzogiorno. Un quadro impietosamente riassunto, qualche anno dopo, in una relazione dei demografi e : erano 400 le calorie giornaliere che separavano i già rinsecchiti stomaci del Nord da quelli ancor più strizzati del Sud. Livio Livi Guido Galeotti Monelli in quegli anni non era solo fascista entusiasta, ma parte attiva dell’ etiopico, principale fonte della crisi alimentare anteguerra. Con altri sei colleghi, il 30 giugno del 1936 si era reso protagonista di una vile sequela di fischi e canti all’indirizzo del negus (1892-1975), mentre il sovrano etiope chiedeva all’assemblea della Società delle nazioni di non riconoscere la conquista italiana del suo paese. Una sceneggiata orchestrata dallo stesso Mussolini, non nuovo ad azioni del genere. Nel 1919, da sconosciuto giornalista, con il futurista il duce aveva scatenato un’analoga contestazione alla Scala di Milano, per impedire al socialista riformista di dichiararsi a favore di un accordo con la Jugoslavia sulla controversa questione dei confini. affaire Hailé Selassié Filippo Tommaso Marinetti Leonida Bissolati Fascista dunque, Monelli, ma non futurista. Un po’ per spregio nei confronti di uomini per i quali - per dirla con le parole di Giuseppe Antonio Borgese - “se ci fossero stati degli usignoli a cantare nei boschetti immortali del Petrarca e del Leopardi, li avrebbero fatti tacere uccidendoli” e un po’ per la visione diametralmente opposta nei confronti del cibo. Era la , a , il campo di battaglia dove si brigava di cotture e intingoli. Lo era sin dal 1926, anno di istituzione dell’omonimo premio letterario, il cui pacifista. Non erano quelli gli anni adatti. trattoria Bagutta Milano regolamento fu ideato la notte di san Martino “tra bicchieri pieni, mezzi vuoti, su un pezzo di carta da droghiere”. Da una parte - tra gli altri - Marinetti e Luigi “Fillìa” Colombo ; dall’altra Monelli e Orio Vergani , futuro fondatore dell’Accademia Italiana della Cucina. Da un lato del tavolo i nemici della pastasciutta, “assurda religione gastronomica”, fonte di “inattività nostalgica e neutralismo”; all’altro capo i difensori del rigatone, “ideale vivanda dei combattenti”. Non stupisca l’assenza dell’ala Il ricordo degli scontri in Valsugana, Ortigara e Tondarecar, del resto, non abbandonano mai Monelli, nemmeno in quell’estate del 1934. Sublimata, declinata in forma letteraria, è la guerra a fungere da fondale al . Guerra culinaria s’intende, innocua, in cui la propaganda di regime rimane sullo sfondo, filtrata da un linguaggio da fine uomo di lettere. Una lotta incruenta, fragrante di buon tempo antico, a richiamare già dal titolo illustri autori di avventure cavalleresche. Ghiottone errante Così l’accoppiata tra il robusto e alcolista Monelli e l’astemio e segaligno Novello è una riedizione al contrario del Don Quijote e Sancho di Cervantes. La “zuffa” dell’oste di Pescarenico con la polenta un omaggio all’Ariosto e alle “lotte del cavaliere errante con l’Orca” nell’ . Sopra ogni altro, è a Rabelais che affida la propria poetica, tutta concentrata su ironia e parodie. Monelli si sforza di assomigliare ai debordanti personaggi dello scrittore di Chinon (omaggiato nelle etichette di vino del compianto Charles Joguet), ai suoi Gargantua e Pantagruel, attraverso ironici peana e scontri da barzelletta, in cui dichiara il proprio eroismo nell’affrontare, tutto da solo, “sessanta battaglie”, oltre “alle scaramuccie delle merende e della prima colazione”. Orlando furioso Buona parte del vocabolario de , in fondo, ribadisce quel tono da cavalleresca, stemperandolo in un clima di generale ironia. Così il non solo “ha la generosità dei forti, e penetra nel cuore col passo del buon guerriero”, ma evoca anche “fuste brigantesche per l’assolato mediterraneo, bagliore di armi, e grato posare dopo le armi”. Il , “patrio vino”, non si sottomette alla bocca del degustatore: è lui che “prende possesso del palato”. A “il bianco incita al rosso”; a il Lambrusco è “buon despota”. Il valtellinese Sassella, invece, è fonte di un innocuo “sonno gremito di sogni eroici” e non, come fu per Carducci, “una poesia animatrice di guerrieri”. Era questo un ironico riferimento alla bottiglia di datata 1848 che ispirò al poeta l’omonima poesia delle , salvo poi scoprire che il presunto vino vendemmiato nell’anno della primavera dei popoli era in realtà un giovanissimo Nebbiolo del 1885, cui gli amici avevano cambiato etichetta. Il ghiottone errante quête Barbaresco Barolo Bardolino Sorbara Sassella Odi barbare Nella del duce, invece, il Sangiovese assume la brutta veste di “vino delle rivoluzioni, delle spedizioni punitive”, e più che di marasca, olezza di ricino. L’aria dell’idroscalo di gli ricorda la trasvolata atlantica di Italo Balbo, partita da lì un anno prima con destinazione Terranova, cui egli partecipa in veste di giornalista per sostituire , ammalatosi di malaria in Africa. Ora però, anziché al suo “I-ABBR dell’anno prima”, alle “mattine delle partenze con gli arditi Romagna Orbetello Ernesto Quadrone compagni” e alla “fischiante aria degli approdi sulle acque sconosciute”, preferisce dirigere la sua foga verso la focaccia calda servitagli al tavolo, un po’ come il Tar tarino di Daudet, che al ritorno dall’Algeria decide di coprirsi di flanella anziché di gloria. Solo la presenza dei commensali aviatori gli rammenta l’eroica missione, suscitando in lui “un’ebbrezza di rischio, un desiderio di osare, che nessun vino mi darà mai”. Quell’ebbrezza che a Caluso lo porta a ordinare “da prepotenti”, salvo farsi mettere “subito a posto” dall’oste di turno. Grassi e nerboruti custodi del patrimonio culinario, sono gli osti gli imprescindibili coprotagonisti del libro, vestiti anche loro di improbabili abiti cavallereschi. Così quello di è “savio e sagace; e mostra “il gran ventre che è privilegio del grand’uomo”. Nella manzoniana , il padrone della locanda “ruma e mena con la cannella nella mistura” e anche se la polenta cresce di dimensioni, rischiando di soverchiarlo, il “cavaliere non si avvilisce”, e al parafrasato grido mussoliniano (rubato a un condottiero al servizio degli Asburgo, ) di “più nemici più onori”, il novello san Giorgio del Ticino “maneggia la lancia contro la materia” e in una roboante progressione “la rimescola, la castiga e la doma”. A un oste ruvido e sornione, con la stessa leggerezza con cui Margutte rompe le casse di legno dell’oste nel di Luigi Pulci, si affaccia al tavolo di Monelli e Novello per spezzare in due uno “squinternato” pollo alla diavola. Barbaresco Pescarenico Georg von Grundsberg Firenze Morgante A volte, sono gli stessi clienti a ricalcare le comiche gesta degli incontenibili giganti dello scrittore fiorentino. Così a si racconta di Pavlòn, sergente della guardia nazionale: nulla, “né allegria di convitati né varietà di discussioni, lo distraeva dal compito di macinare e di trangugiare”, fino a quando il cinturone del militare si spezza sotto la pressione dell’enorme pancia, terrorizzando i clienti. Un altro, “che mangiava voracemente da tre ore, tortellini e zampone e prosciutto e bistecche”, finirà per svenire, non avendo il suo stomaco abbastanza forza per rompere la cintura che lo strozzava, salvo chiedere ancora da mangiare, una volta liberato dal fastidioso vincolo. Sorbara A è un’ostessa a rivendicare a gran voce il ruolo di protagonista della tenzone, e anche se le sue “mani nocchierute, use al rastrello e alla falce” non l’avvicinano alla conturbante femminilità della bella Clorinda nella , questa vigorosa padrona di casa “castiga la poltiglia d’acqua e fior di farina, le dà di gran manate con la parte inferiore della palma, spampana e raccoglie a volta a volta il gnocco sulla spianadora” con la stessa foga della bionda principessa musulmana allo scontro finale con Tancredi. Gli ultimi bagliori guerreschi si intravedono in Abruzzo, con l’umile minestra servita a , promossa ad ambrosia “da guerrieri, da sgretolatori di montagne, da valicatori di oceani”. Da in giù, invece, là dove incomincia l’Italia meridionale e il vino “prende un suo caratteristico gusto grasso ed oleoso, sia esso asciutto, pastoso o sulla vena”, la parodia epica trascolora, fino a scomparire. Carpi Gerusalemme liberata L’Aquila Roma Già nella capitale la cucina è “da caprai, da pastori di bufale, da bùtteri, da navicellai”, bucolica dunque, e non epica, eppure “saporitissima, aggressiva, policroma”. Non si lascia conquistare, però, il dandy Monelli, dal vino laziale: “vino per vescovi tedeschi, troppo smaccato per noi, troppo attiramosche e snervapalato; ci voleva l’ugola di un servo tedesco per scrivere ‘Est Est Est’ sull’uscio di queste cantine, dopo essere passato assaggiando per Orvieto, Montepulciano, ed il Chianti, e la Rùfina, e Carmignano, ed aver fatto di quei nettari più modesta menzione”. A i guerrieri hanno deposto da tempo le armi, e vestono “come manichini d’un negozio di novità estive”. A gli abitanti si dimostrano “sobri, perché sono meridionali, poveri, e filosofi razionali”. La massaia pugliese, nell’impastare i suoi strascinati, nulla ha a che vedere con la rude analoga carpigiana: le sue dita premono sulla pasta con garbo da gran dama. In , addirittura, la cucina si fa tanto languida, morbida e accogliente da diventare “paradiso dei bambini e dei vecchi sdentati”; l’unica, in tutto il viaggio, a smuovere persino il rinsecchito stomaco di Novello, visto per la prima volta “commuoversi, replicare, triplicare, moltiplicare gli assaggi”. Capri Napoli Sicilia Arduo fare la stessa cosa con le pagine del libro. Prosatore magnifico, Monelli manovra la penna come un pennello: affresca con colori pastosi grandi scene e lumeggia con tratti acuminati i particolari più intensi. Tuttavia, pur sforzandosi di avvincere il lettore tappa dopo tappa, intingolo dopo intingolo, il suo linguaggio forbito, per quanto pervaso da fine ironia, richiede spesso uno sforzo pari a quello dei cavalieri alla pugna. Il suo vocabolario è duro da masticare per chi non ha denti adatti. Le gole non sono assetate, ma “sitibonde”; certi formaggi non sono venati di rosso e bianco: sono “uberi”; a dividere da non c’è un confine, ma una “finitima”. Modena Reggio Non si a contano poi i riferimenti letterari. Petrarca compare più volte: a Bertinoro , con monumenti “per cui movonsi i vecchierelli canuti e bianchi”, e a Barolo, dove “l’aura gentil che rasserena i poggi” instrada i due protagonisti per le vie del tartufo. Sulle rive ticinesi “orlate di pioppi, di ontani, di gattici tremanti al vento della corrente” fa capolino Pascoli . I “torrenti ruinosi” parlano di Tasso , i “tònfani” di Francesco Redi . La luce è “occidua” e il pozzo si “adìma” come per Carducci , e se Carducci e gli Scaligeri sono “bibaci” è perché già lo erano per D’Annunzio , vera stella polare di Monelli. Prosa magniloquente, ricchezza lessicale, citazioni colte, vocaboli arcaici o poco usati: se l’argomento del rimane il cibo, è lo stile con cui è raccontato a scremare da solo i propri lettori. Nella mente di Monelli e di Amicucci c’è la parte benestante della borghesia degli anni Trenta, dotata di sufficiente istruzione, tempo e denaro per seguire il denso tracciato segnato dal giornalista, lungo un’Italia che era Bengodi per pochi. Agli altri, i più poveri, gli opuscoletti di “cucina autarchica” e i famosi ricettari di Petronilla, al secolo (1872-1947), pediatra prestata al mondo della cucina, che insegnava a preparare una “torta squisita senza uova, senza burro e persino senza zucchero”. Ghiottone Amalia Moretti Foggia Eppure, come il progressivo immiserirsi degli ingredienti di quelle ricette nulla toglie alle buone intenzioni di Amalia, impegnata, in quegli anni tanto difficili, a restituire brandelli di dignità (e di calorie) alle famiglie meno abbienti, così le storture fasciste di Monelli - da cui pare allontanarsi dopo il famoso “ordine del giorno Grandi” - e la “libertà condizionata” del suo giro svalutano solo in parte quell’eccellente lavoro. Giornalista talentuoso, pur nemico, fino al più grottesco eccesso, di ogni termine straniero, perché “i popoli forti impongono il loro linguaggio, non raccattano ogni foresteria con balorda premura”, mostrò, come pochi altri, una sincera premura per il cibo di qualità, arrovellandosi fino allo sfinimento sulla maniera più degna di raccontarlo. Mai davvero realizzato come militare, nonostante il grado di tenente colonnello, Monelli sembra aver individuato nel foglio di carta l’unico campo di battaglia in cui portare a compimento il suo innato spirito di guerra. Padre dei Veronelli, dei Soldati e dei Brera, questo “irredentista della lingua” - come lo ha definito Luca Goldoni - al netto di bizantinismi ed esagerazioni rimane la solida pietra angolare della nostra moderna letteratura enogastronomica. A lui dovremmo tutti fare riferimento, specialmente ora che il “barbaro dominio” non proviene di là dalla Manica, ma dalla sciatteria delle penne di casa nostra.