In una recente intervista pubblicata su “Il Sole 24 Ore”, un guru del marketing, lo statunitense Seth Godin, ha dichiarato:“Dobbiamo far scendere i brand dalla giostra dei social media, che va sempre più veloce, ma non arriva mai da nessuna parte”.
Lasciamo stare altri contenuti pericolosamente capziosi che, con soave leggerezza, il guru aggiunge a quella affermazione. Non c’è da stupirsi della sua freddezza. Sappiamo che il marketing è sempre stato un grimaldello psico-sociale. Una macchina da ipnosi puntata su ognuno di noi. Ce lo raccontarono mirabilmente, per esempio, lo scrittore Luciano Bianciardi e il regista Carlo Lizzani nel 1963, in un film da vedere e rivedere con Ugo Tognazzi, La vita agra (consiglio caldamente anche il libro).
E non possiamo sorprenderci se, nel frattempo, le cose sono precipitate.
Seth Godin, però, ne fa una questione di asettica convenienza comunicativa e mercantile.
Dice ancora:“La cosa che ha funzionato in passato, che ti ha permesso di vendere roba mediocre a persone normali, ora non funziona più ed è persa per sempre. L’alternativa oggi è fare qualcosa di cui valga la pena parlare. Insomma, costruire un’esperienza memorabile”.
Bene. Sostengo questa tesi da dieci anni. Ovvio che lui, dal suo punto di osservazione multinazionale, si riferisce alle grandi imprese: “Le cinquecento aziende più influenti al mondo sono anche più grandi di qualsiasi altra nazione”. Mentre io, guardando al dorato mondo del food, ho sempre pensato che quella stessa rivelata verità del guru sia ancor più valida e stringente per le medie e piccole realtà produttive. Che non hanno il coraggio e il buonsenso di investire in iniziative etiche e qualificanti. Ma sperperano i loro quattrini sponsorizzando manifestazioni inutili, con programmi fotocopia: masterclass, workshopping, degustazioni, cooking show, laboratori esperienziali (curioso come l’italiano possa divenire più arcano e incerto di qualsiasi lingua straniera, se maneggiato con la dovuta sciatteria). E riempiono di quattrini le borsette di fuffchef, fuffblogger e influencer (che sono fuff per antonomasia).
Immaginiamo che le ricette dell’algido Seth Godin attecchiscano istantaneamente al tessuto del mercato enogastronomico italiano. Che cosa direbbero, in tal caso, i maggiori esponenti di quel mondo che si è nutrito di fuffmarketing sino a oggi? Ho posto la domanda ad alcuni campioni del ramo. Preciso che le risposte sono rigorosamente testuali.