cocktail di vini Gherardo Fabretti L’idea di usare il vino nei cocktail a qualcuno potrebbe causare un mancamento, un po’ come accade ai cinefili sentendo proporre una riedizione a colori di Casablanca. Sul tingere le guance di Bogie in Technicolor possiamo essere d’accordo, ma Rick Blaine certo non avrebbe storto il naso davanti a un matrimonio più comune di quanto sembri. Non è forse uno Champagne Cocktail quello che Victor Laszlo beve al tavolo prima con Berger, e poi col capitano Renault? E che dire di Yvonne, armata di French 75 al braccio di un soldato tedesco per dimenticare l’unica notte trascorsa con Rick? È lei a cantare più forte di tutti, per coprire l’odioso intonato dai nazisti, fino a esplodere in un liberatorio La Marseillaise Die Wacht am Rhein Vive La France! In un bar del Marocco di Vichy, insomma, lo Champagne sposava senza imbarazzo gin e cognac già nel 1942, e unioni così laiche erano in corso da tempo. A Bordeaux, alla fine dell’Ottocento, i fratelli Paul e Raymond Lillé, negozianti a Podensac, seguirono una felice intuizione che li avrebbe portati a creare il Kina Lillet (oggi sostituito dal Lillet Blanc): vino bianco, liquore a base di frutta macerata, chinino e altre spezie. In quegli anni la Gironda era il fulcro dell’industria dei liquori (nomi ormai oscuri come Droz, Jouve, Cazanove erano allora ben noti), nonché il porto perfetto per ricevere spezie e merci dalle colonie francesi d’oltreoceano. In tutto l’Impero gli amari medicinali erano assai richiesti per combattere le febbri dei tropici. sperti liquoristi e proprietari di una fabbrica fondata nel 1865, nel pieno di una congiuntura economica favorevole come quella del Secondo Impero (1852-1870), i Lillé avevano tutte le carte per fare fortuna con il loro innovativo tonico. La vulgata aziendale fa risalire la creazione del Kina Lillet al 1887, anche se è difficile accettare l’idea di un prodotto industriale quasi interamente a base di vino bianco locale (sauvignon blanc e sémillon) in piena isteria da fillossera. La prima testimonianza di un lancio pubblicitario, in effetti, risale al 1895, ma la moda esplode trent’anni dopo, grazie a Wallis Simpson, duchessa di Windsor e moglie dell’allora re d’Inghilterra Edoardo VIII. La fama imperitura arriva nel 1953, con di Ian Fleming: James Bond inventa di sana pianta il Vesper, un cocktail con “tre parti di gin, una di vodka e mezza di Kina Lillet”, con tanto di appunto al barman per non avere usato una vodka a base di cereali. Bond lo dedica alla bella Vesper Lynd, ma la paternità è di Fleming, che lo aveva mutuato dal suo passato di agente del Servizio Informazioni della Marina inglese. Il nome, infatti, glielo aveva ispirato una vera donna del servizio segreto: Christine Granville, nata in Polonia come Krystyna Skarbek, nome in codice Vésperale. Casino Royale Un rapporto molto stretto, del resto, lega vino, cocktail e guerra. Pare sia stato l’insopprimibile spartachismo che covava nell’animo di un uomo di religione a far deflagrare uno degli “accoppiamenti giudiziosi” - per dirla con Gadda - più noti della storia: il Kir. Storica contaminazione tra vino e liquore, sembrerebbe nato dall’iniziativa di Felix Kir, un prete cattolico di Digione sordo ai suggerimenti di fuga durante l’invasione nazista della Borgogna. Oltre ad aiutare più di quattromila prigionieri di guerra a fuggire, Kir decise di colorare con la rossa crème de cassis i bianchi da aligoté, rimpiazzando i vini rossi sequestrati dalle camicie brune ed elevando una bevanda a simbolo di ostinata resistenza. Una bella storia che però rimane tale: pur domiciliato a Digione, il Kir avrebbe un altro padre, una data di nascita più vecchia di quarant’anni e persino un altro nome. Fu infatti nel 1904, al banco del Café George, dove il 42 di rue du Montchapet fa angolo con rue de Constantine, che un giovane cameriere di nome Faivre decise per la prima volta di unire aligoté e cassis per dar vita al Cassis blanc. Più che la mancanza di una licenza curiale, fu l’assai meno eroica vita di quel ragazzo a invalidare le nozze, consegnando al futuro sindaco di Digione la paternità della bevanda. Anche la ricetta del French 75 (noto anche come Soixante Quinze) è indissolubilmente legata a faccende belliche. Quando fu codificata, non ospitava vino. Nonostante ciò, una ricetta molto simile del passato lo conteneva eccome. In visita a Boston, lo scrittore Charles Dickens offriva, nelle sue stanze del Parker House Hotel, una bevanda a base di gin e Champagne. Nell’India coloniale da tempo era diffusa una bevanda analoga, il King’s Peg, abbastanza nota da comparire (pur senza esplicita citazione) nel 1890 in uno dei più inquietanti racconti di Rudyard Kipling, Alla fine del passaggio , dove si precisa persino la marca dello Champagne, un Heidsieck. Il nome ufficiale arriva solo nel Novecento, ispirato da un noto obice francese, il 75 mm Modèle 1897, che conobbe grande fortuna durante la Prima guerra mondiale. William Philips Simms, reporter americano di stanza a Parigi nel 1915, dichiarò senza incertezze che, se la Francia avesse vinto la guerra, avrebbe dovuto ringraziare soprattutto quel capolavoro di ingegneria bellica. La notorietà del cocktail travalicò presto le trincee, giungendo alle orecchie affamate di patriottismo dei francesi. Al pari del vino, infatti, i cocktail sono creature vive, sensibili ai cambiamenti e interpreti della storia. L’origine dei più noti si perde spesso nelle nebbie del passato, fin quando la brillante iniziativa di un novello Adamo assegna loro un nome, fissando una posticcia data di nascita a una creatura magari viva da decenni. Fu anche per amor di propaganda che il barman dell’Henry’s Bar di Parigi, Henry Tépé (così vuole la leggenda) mescolò gin, brandy di mele, granatina e succo di limone e lo battezzò Soixante Quinze, settantacinque, poi mutato in French 75. Negli anni Venti, stemperati i bollori del conflitto, lo Champagne ritorna nella ricetta, sostituendo la granatina e il brandy di mele. La sua prima comparsa sembra risalire al 1927, nella seconda edizione di Heres’s How di Judge Jr. In quegli anni di precaria, decadente serenità, lo Champagne è davvero il grande protagonista del bere miscelato. Nel 1921 Pat (o Malachy) McGarry, capobarman londinese del Buck Club, lo unisce al succo d’arancia e crea il Buck’s Fizz. Quattro anni dopo, nel 1925, al Ritz di Parigi Frank Meier elabora il Mimosa, distinguibile dalla creatura di McGarry per il rapporto paritario tra succo d’arancia e Champagne. Di Champagne Cocktail, invece, si parla già nel 1855. Robert Tomes, chirurgo statunitense impiegato su una nave della Pacific Mail Steamship Company, individuava gli ingredienti nei suoi racconti di viaggio tra Panama e San Francisco: “Una bottiglia di Mumm di prima qualità, un rinfrescante piatto di ghiaccio cristallino di Rockland e una bottiglia dall’aspetto medicinale, sulla quale sta scritto, in modo chiaro e diretto, amaro”. Il ghiaccio proveniente dalla riva orientale del lago Rockland, a New York, era all’epoca il più puro della valle del fiume Hudson e fece la fortuna della Nickerbocker Ice Company, una società commerciale fondata nel 1831. Non c’era cognac nel presunto atto di nascita della bevanda, e certo non stupisce la presenza di una bottiglietta di amaro nella borsa di un medico del XIX secolo, per giunta immerso nel clima tropicale del Centroamerica. A ingentilire l’amarognolo del bitter, una zolletta di zucchero, destinata a rimanere a galla nelle successive versioni. Un rapporto ricorrente, quello tra il cocktail e le navi, dal successo immediato. Mark Twain, nemmeno vent’anni dopo, nel 1869, lo citerà nel divertente taccuino di viaggio , ambientato a bordo di un piroscafo dismesso della Guerra Civile appena trascorsa, l’USS Quaker City. Gli innocenti all’estero In questa partita tra angloamericani e francesi non sembrerebbe esserci spazio per la “giovine” Italia, che da tempo aveva mutato i fervori risorgimentali di Mazzini nei pruriti coloniali dell’ultimo Crispi. Eppure, tre anni dopo aver tagliato il martoriato traguardo del 1945, i ricchi già brindavano col Bellini: Prosecco, succo di pesca e un goccio di succo di lamponi. Fu inventato a Venezia da Giuseppe Cipriani, ispirato - disse - dalle calde tonalità della tonaca di un santo, dipinto dal concittadino Giovanni Bellini (1433-1516), cui quell’anno era dedicata una mostra. Molto tempo prima, nel 1786, Antonio Benedetto Carpano, a Torino, già addizionava zucchero, erbe e spezie al Moscato bianco, gettando le basi per il vermut moderno: un vino aromatizzato, oggi in grande spolvero, destinato a fare la storia del bere miscelato. All’intuizione di Carpano si devono le sorti di aziende, come Martini, Cocchi e Cinzano, e di storici cocktail, come il Milano Torino, l’Americano e il Negroni. Il primo nacque intorno al 1860 nel bar Camparino del capoluogo lombardo, e bastò una lieve aggiunta di soda per tramutarlo nel secondo. Ben più accidentata la genesi del Negroni. La tradizione fissa la sua nascita al 1919, quando il conte Camillo Negroni tornò in Italia. Le malelingue giuravano che l’infiammabile conte, dopo anni trascorsi nei panni di cowboy nel West e di giocatore d’azzardo ai tavoli di New York, fosse tornato dagli Stati Uniti quando il XVIII emendamento e il Volstead Act fecero piombare la nazione nei quattordici anni del Proibizionismo. Assiduo frequentatore del bar Casoni (oggi Caffè Giacosa) di via Tornabuoni, a Firenze, il conte chiese al barman Fosco Scarselli di irrobustire il suo Americano, dando vita al cocktail italiano più famoso del mondo. Una versione meno accreditata fa arretrare la ricetta del Negroni di cinquant’anni. L’inventore, secondo gli attuali discendenti, era Pascal Olivier, conte di Negroni, francese di Corsica e attivo generale di brigata. Durante la guerra franco-prussiana (1870-1871), Pascal era al comando di un reggimento di corazzieri di stanza in Lorena, contesa allora tra le due potenze. Una sera, al circolo ufficiali di Lunéville, il generale presentò ai commilitoni il mix di gin, vermouth e bitter che prenderà il suo nome. Altri invece collocano l’evento a Saint Louis, in Senegal, nel 1855. Si diceva che Pascal, all’epoca in Africa Occidentale, avesse inventato la ricetta per lenire le insofferenze digestive della moglie. Non sappiamo se Orson Welles avesse notato la curiosa tendenza dei membri della famiglia Negroni (reali o ipotetici) a mostrare spiccate competenze di merceologia degli alcolici, ma l’istrionico artista si trovava certo d’accordo col generale sui benefici della bevanda. Una sua dichiarazione del 1949, rilasciata al “Coshocton Tribune” mentre girava in Italia , recitava sornione: “I bitter sono eccellenti per il fegato, il gin fa male: [nel Negroni] si bilanciano a vicenda”. L’anno successivo, il 1950, Ernest Hemingway ultima a Venezia , cogliendo, nel quarto capitolo, un “riccone post-bellico di Milano, grasso e incallito come soltanto i milanesi sanno esserlo” intento a sorseggiare un Negroni in compagnia “dell’amante costosa ed estremamente desiderabile”. Anche il colonnello Cantwell, protagonista del romanzo, ne berrà uno a Venezia, ma la vivace presenza femminile è sostituita da un brillante barista di simpatie anarchiche. Il rapporto tra Negroni, Milano e baristi, d’altronde, è ricorrente: basti Cagliostro Di là dal fiume e tra gli alberi pensare a Mirko Stocchetto. Al Bar Basso di via Plinio, nel 1972, tirando su al posto del gin uno spumante, tramuterà un errore in un nuovo mito: lo Sbagliato. A insidiarlo arriverà lo Spritz. Nato alla fine dell’Ottocento a Venezia, quando la Serenissima faceva ancora parte dell’Impero Austro-Ungarico, era il frutto della naturale predisposizione dei soldati imperiali ad allungare i vini bianchi del luogo con l’acqua gassata. Non una qualunque, almeno all’inizio, ma quella di Selters, piccola cittadina dell’Assia, nella zona montuosa del Taunus, dotata di una fonte ricca di anidride carbonica: la Selterswasser. Da qui l’origine dell’arcinoto seltz, un tempo imprigionato in splendidi e affidabili sifoni di cristallo lavorato, soprattutto di Boemia, e oggi rinchiuso in più prosaici contenitori di plastica. Parente dei Fröccs ungheresi e dello spagnolo Tinto de verano, lo Spritz (dal tedesco , spruzzare) ha finito per arricchirsi, fino a diventare l’attuale combinazione di bitter, vino bianco e seltz. Un accostamento dei tre ingredienti tutt’altro che pacifico. I puristi lo vorrebbero con un bianco fermo, mai col Prosecco. Tra i bitter poi, Aperol e Campari fanno la parte del leone; tuttavia, i più originali giurano fedeltà al (forse) primigenio Cynar, o alla China Martini, mentre i veneziani vedono solo Select. Vero “mito d’oggi” barthesiano, la nuova bandiera del bere all’italiana vive le contraddizioni e le inevitabili pose del successo planetario che ha riscosso. Un mito, quello dello Spritz, destinato un giorno a prendere posto, come altri prima di lui, nella Teogonia del vino miscelato. spritzen