Ne è trascorso di tempo da quando, all’inizio del Novecento, i coloni dalmati nei pressi di Auckland producevano grandi quantità di Dally plonk, definizione dispregiativa per vini di modesta qualità a basso costo. Con un’attività vinicola datata quanto l’insediamento europeo, avvenuto nel XIX secolo portando con sé la cultura del Vecchio Mondo e l’immancabile vitis vinifera, sull’area enologica più australe del pianeta negli ultimi decenni si sono accesi i riflettori internazionali. Impresa inizialmente tutt’altro che facile e per nulla scontata, visto il naturale isolamento geografico - sono circa ventiquattro ore di volo dall’Italia - e la scarsa produzione, pari all’1 per cento del vino mondiale. Visitare la Nuova Zelanda del vino significa ammirare una terra di formazione relativamente recente, fatta di estremi: dal clima sub-tropicale a quello continentale, dai terreni vulcanici del Nord agli scisti dell’estremo Sud.
Un territorio ancora in gran parte incontaminato grazie a un’attenta politica di tutela delle specie animali e vegetali, e alla scarsa presenza dell’uomo. Si tratta di due isole staccatesi dalla placca australiana circa 40 milioni di anni fa, sommerse dal mare e poi affiorate lentamente in superficie, abitate inizialmente da popolazioni di origine polinesiana giunte seguendo il volo degli uccelli. Rapportate all’emisfero settentrionale, le regioni vinicole neozelandesi si estendono a una latitudine compresa tra Bordeaux e il Libano; specularità, tuttavia, cui corrispondono condizioni ambientali molto più fresche di quanto i dati geografici potrebbero far pensare a causa delle correnti fredde del Pacifico e della vicinanza antartica. Purtroppo l’isolamento naturale di Aotearoa, “la terra dalle lunghe nuvole bianche”, così la chiamano i Maori, non è bastato a mettere la Nuova Zelanda al riparo da fillossera e malattie: per scongiurare il diffondersi di patologie della vite, oggi di frequente viene chiesto ai visitatori, prima di passeggiare tra le vigne, di disinfettare le scarpe in tinozze contenenti ipoclorito di sodio, in pratica varichina. Le ultime statistiche fornite da NZ Winegrowers Vineyard Register Report 2016-2019 riferiscono di una superficie vitata di circa 36.000 ettari, su cui operano 675 aziende di piccole o medie dimensioni, talvolta di proprietà di grandi gruppi, come Pernod Ricard, LVMH o Constellation NZ, sedotti dal forte appeal dei vini “kiwi”. La grande quantità esportata, pari ai due terzi della produzione, impone un sistema legislativo e di denominazioni vicino agli standard europei.