il buono del lievito cattivo Francesca Zaccarelli Il bouquet di un vino è il prodotto della straordinaria interazione tra le qualità aromatiche intrinseche dell’uva e i microrganismi che ne fermentano il mosto. I lieviti infatti hanno la capacità di scindere dallo zucchero e rendere percettibili le molecole volatili già esistenti, e il pregio di crearne di nuove. La selezione dei ceppi con le prestazioni metaboliche migliori è quindi fondamentale quando si ha un obiettivo enologico preciso, così come risulta indispensabile la pulizia della cantina, affinché i lieviti svolgano il loro dovere senza troppe interferenze. Nonostante l’attenzione dell’enologo, il controllo sulla fermentazione e sui microrganismi che attaccano il mosto non può essere assoluto. In cantina prolifera una microflora abbondante e stravagante. E se l’uso dell’amata e odiata solforosa aiuta molto, non può rimediare a tutto. Come affermava Ribéreau-Gayon nel suo , sono i microrganismi che fanno il vino e sono sempre i microrganismi che lo distruggono. Trattato di enologia Può capitare che, accanto a fragoline di bosco e fragranti fiori, spuntino odori oltremodo rustici: sudore, formaggio, rancido, cavolo, aglio, stalla, salume, cenere, pelo bagnato, fino alla , che, nonostante il francese, rende bene l’idea della poca finezza olfattiva. Se il calice emana uno di questi sentori, il vino potrebbe essere stato contaminato da uno dei lieviti più comuni in cantina: il temutissimo Brettanomyces. merde de poule A occhio nudo il Brettanomyces si presenta come una muffa, e come tutte le muffe si annida ovunque. Questi lieviti raramente producono spore e in questo caso sono attribuiti al genere Dekkera. La specie più frequente in enologia è il Brettanomyces bruxellensis, nel quale confluiscono il Brettanomyces intermedius e il lambicus. Non sono lieviti presenti naturalmente sull’uva, ma crescono bene negli ambienti atti alla vinificazione. Le vecchie cantine, con botti maestose e soffitti consumati dalle fermentazioni e dall’umidità, sono gli habitat ideali per la proliferazione di questo microrganismo. Eliminarlo non è impossibile, ma richiede interventi di pulizia e sterilizzazione così radicali che tutta la flora ne verrebbe negativamente affetta - in primis i buoni e laboriosi Saccharomyces autoctoni, capaci di conferire al vino la sua originalità. La fase più delicata e soggetta ad attacchi si verifica tra la fermentazione alcolica e la fermentazione malolattica, quando cioè il vino non può essere addizionato di solforosa (inibente per lo sviluppo di batteri malolattici): in questa situazione di vulnerabilità lieviti e batteri indesiderati possono prendere il sopravvento. Anche travasi, tagli e assemblaggi sono operazioni rischiose, a causa dell’esposizione del vino all’ossigeno, che aiuta i patogeni a moltiplicarsi. I Brettanomyces sono pericolosi perché non sono esigenti dal punto di vista nutrizionale: bastano pochi residui zuccherini e composti azotati, e la loro tolleranza verso l’etanolo supera quella dei Saccharomyces. Prediligono inoltre pH più elevati, quindi si sviluppano più facilmente nei vini rossi e in alcuni bianchi zuccherini e poco freschi, soprattutto se hanno subito la fermentazione malolattica. La solforosa è il rimedio più efficace, ma solo nella sua forma libera, non combinata. Una buona strategia è far crescere in modo sano i Saccharomyces, creando una competizione che argini il più possibile i lieviti dannosi (la soglia di accettabilità non deve superare le mille cellule di Brettanomyces vive per ml di vino). Il problema non riguarda solo la cantina e le fasi fermentative. Durante la sua vita, un vino può essere ancora soggetto ad attacchi di Brettanomyces, e si possono sviluppare alterazioni sgradite anche nella maturazione in legno o durante l’affinamento in bottiglia. Per questa ragione si aggiunge SO prima dell’imbottigliamento. Un vino ben fermentato e senza residui zuccherini non sarà più attaccato dai restanti Saccharomyces. Ma il Brett nella bottiglia troverà senz’altro qualcosa di cui cibarsi e crescerà lentamente nel tempo, arrivando a compromettere irrimediabilmente il vino. 2 Quasi mai accettabile nei vini, questo lievito è una delle principali cause di modificazione delle caratteristiche qualitative del vino. La sua attività porta alla formazione di particolari metaboliti, come i vinil ed etilfenoli, che conferiscono al vino odori caratteristici descrivibili come solvente, ricordi di pancetta, affumicatura, inchiostro, spezie scure (4-etilguaiacolo), e infine l’acido isovalerico, responsabile della nota di rancido e di olio fritto, sudore e altre molecole che emanano la cosiddetta “pipì di topo”. Tra i sottocomposti si annovera anche la cadaverina, e lasciamo immaginare quale odore ricordi. Purtroppo, quando questi aromi prevalgono, tutti gli altri spariscono. I vini con un forte carattere Brett tendono ad assomigliarsi, a esprimere le stesse marcanti e omologanti caratteristiche olfattive, indipendentemente dalla zona, dal vitigno o dall’annata. La conoscenza dei punti critici della vinificazione e le misure di prevenzione sono gli unici mezzi per garantire una buona gestione del problema Brett. Osservando le norme di igiene in cantina e per i vasi vinari, sanitizzando le botti, effettuando controlli microbiologici e analisi sensoriali costanti durante la maturazione, è possibile limitare gli effetti dannosi causati dal Brettanomyces. Tuttavia, data la naturale presenza di questo lievito nelle cantine e la sua proliferazione più marcata in certe zone e in alcuni climi, talvolta questi sentori – in un’adeguata misura – sono considerati come indice di tipicità e di terroir. Il confine tra peculiarità e anomalia sembra lasciato al giudizio soggettivo: alcuni degustatori tollerano maggiormente il carattere Brett e ne apprezzano la capacità interpretativa del luogo e del vitigno. Questo è fonte di confronto e discussione con chi la pensa diversamente. Recentemente il dibattito si è riacceso dopo la pubblicazione di uno studio dell’Università della California-Davis che ha riabilitato il Brett, riscrivendone le potenzialità e lo spettro olfattivo. A fianco delle puzze inaffrontabili che costringono a buttare via il vino, il Brett è infatti responsabile di composti odorosi interessanti e caratterizzanti, come il pepe e il cuoio tipici del Syrah, la tostatura, il caffè e la grafite del Cabernet sauvignon, fino ad arrivare ai fiori carnosi dei vini di alcune zone della Borgogna. La pubblicazione è stata presa seriamente in considerazione, soprattutto perché l’ateneo in questione – il più affermato nel campo della ricerca agricola degli Stati Uniti – è noto per non concedere troppo merito al terroir nella determinazione della qualità del vino. La ricerca, invece, riconosce l’influenza insostituibile di ceppi particolari di Brett, presenti in alcuni luoghi e non in altri, frutto di una selezione naturale durata millenni: ogni terroir ha, per così dire, i suoi. Molti viticoltori ritengono che il Brett sia parte del loro patrimonio territoriale e vitivinicolo; senza, i loro vini non sarebbero la stessa cosa. Questa convinzione è diffusa in Francia, Germania e Italia, ma anche nelle più moderne realtà enologiche californiane, argentine, sudafricane e australiane. L’UC Davis, per la prima volta e solo in questo caso, ha riconosciuto la veridicità della tesi che vede le condizioni ambientali vincere sul vitigno. Si sono aperte quindi ipotesi sul perché i vini del Rodano richiamino il pepe più di altri, dato che il Brett interpreta così quel terroir. Lo stesso vale per i vini bordolesi, con le note di cuoio e fumé, o per quei sentori talvolta pungenti e austeri dei vini nati in Borgogna. Lo studio ha raccolto tutte le varie interpretazioni gusto-olfattive del Brett, e ha creato una nuova ruota aromatica che ne descrive i pregi e i lati oscuri. Lo spettro di aromi parte dagli “speziati” (peperoncino, pepe nero, cardamomo, coca-cola), passa per i sentori terrosi e legnosi (sottobosco, funghi, caffè, sigaro, grafite) e arriva ai frutti, come il tamarindo, e ai fiori intensi. Sul fruttato e sul floreale si sono fatte interessanti scoperte: certe cultivar a bacca rossa con apporti elevati di polifenoli (come il tannat), oppure cresciute in climi freddi e montani, difficilmente potrebbero rilasciare questi aromi solo grazie all’azione del Saccharomyces. Il Brettanomyces è quindi in grado di completare l’espressione olfattiva di certi vini, che diversamente risulterebbero più poveri. Progressivamente, le sfumature sulla ruota creata dall’UC Davis passano dal cuoio alla carne cotta, ai salumi affumicati e infine alla salsa di soia. Non si nascondono i gruppi di aromi più disgustosi: partendo dal gruppo “putrido” (cavolo, carne/pesce in decomposizione), si incontrano i sentori animali di escrementi, quelli di fagioli e aglio, gli aromi di iper-fermentazione e infine il medicinale e il solvente. Lo studio mette in luce quanto la percezione del vino non sia solo personale, ma altresì culturale. La crescita del consumo enoico in nuovi mercati ha portato all’affermarsi di gusti e stili nuovi. In Cina, ad esempio, quello che noi percepiamo come sentore di cerotto e medicinale è ricondotto alla tipica miscela della loro polvere 5 spezie, e i vini Brett con questo profilo aromatico risultano perfetti per accompagnare i piatti della tradizione pechinese. Un poco di Brett non deve quindi fare paura, anzi, si finisce per cercarlo nelle sue espressioni positive, a completamento del profilo aromatico di un vino che possa definirsi complesso, intenso, importante. I composti che questo lievito produce possono conferire proprietà sensoriali completamente diverse al variare delle proporzioni e delle condizioni ambientali. Tutto sta nella giusta quantità e nell’ottenere come risultato un vino integrato, equilibrato. Per controllare e gestire il Brett, si ribadisce che è fondamentale una scrupolosa igiene di cantina, accompagnata da un frequente monitoraggio, soprattutto nella vinificazione di vini da invecchiamento. Il ricorso all’analisi sensoriale è particolarmente prezioso, tuttavia non dovrebbe essere disgiunto dalla ricerca di metaboliti specifici (come appunto i vinil ed etilfenoli) e dai controlli microbiologici, da effettuare in particolare durante il periodo estivo. Per verifiche ancora più efficaci, sono utili i terreni colturali per il conteggio selettivo dei Brettanomyces e i metodi di analisi molecolare. In fase di imbottigliamento, l’aggiunta di solfiti e a volte la microfiltrazione risultano operazioni indispensabili per i vini a rischio. La prevenzione diventa necessaria soprattutto oggi che il cambiamento climatico, indebolendo i batteri buoni e aumentano le temperature, interferisce in modo imprevedibile sulla vitivinicoltura. Anche le mode volte a ricercare vini più morbidi e meno acidi creano di fatto un terreno fertile per gli attacchi più violenti del Brett. D’altro canto, sarebbe ideale individuare quali lieviti non-Saccharomyces hanno il potere di arricchire aromaticamente i vini anziché distruggerli. Il futuro della ricerca potrebbe concentrarsi sull’identificazione di quei ceppi specifici di Brettanomyces capaci di regalare al vino profondità e non solo olezzo, per fare in modo che siano i ceppi buoni di questo lievito cattivo ad avere la meglio.