allarme rosso
AIS Staff Writer

Nel 1540 a Roma la pioggia non cadde per nove mesi, in Svizzera e Francia moltissimi raccolti di frutta e di uva andarono perduti, si seccarono i fiumi, addirittura il Reno e la Senna. Il clima rimase così insolitamente caldo che a novembre, in Baviera, ci si bagnava nei laghetti di montagna per rinfrescarsi, e a Londra il Tamigi fu invaso dalla marea fino a London Bridge. Le cronache italiane raccontano che non fu un evento solitario: Lombardia, Liguria e Toscana conobbero una siccità estrema dal 1539, con strascico fino al 1541, e per gli “intolerandi caldi… tanto crebbe la secità”. Antonio Cesena, descrivendo quelle difficoltà climatiche, riporta che vide vendere l’acqua a due quattrini al secchio a Borgo Val de Taro. Poi il clima si riassestò.


L’elasticità climatica, che talvolta toccava posizioni estreme, non destava preoccupazioni, forse perché non c’era il buco nell’ozono, le emissioni di CO2 erano quasi inesistenti, il sistema viario era popolato da viandanti e da cavalli, mentre il carbone, seppur conosciuto come combustibile, divenne di moda solo nel Seicento e il petrolio due secoli dopo. Erano fenomeni proiettati negli anni, non concentrati in pochi mesi, come accade oggi.


A richiamare questi eventi rinascimentali sono stati vari articoli apparsi durante l’estate in tutta l’Europa; il più catastrofico l’ha riportato “Bloomberg” a proposito della Borgogna. Attenzione, non è catastrofico perché in Borgogna si è persa la vendemmia, bensì per il paragone con la peste nera fatto a questa successione climatica di molto caldo e molto secco, che ha pochi precedenti nella storia. Il report pone come data di transizione al nuovo clima il 1988: la temperatura più calda di questi ultimi trent’anni ha portato a raccogliere l’uva mediamente 13 giorni prima rispetto agli ultimi 660 anni. Il caldo di quelle epoche dava come risultato vini dalla dolcezza simile agli odierni Sherry PX, tanto che la popolazione si ubriacava rapidamente; oggi questo non accade grazie alle conoscenze acquisite applicabili in vigna e in cantina, ma quanto potrà durare tutto questo? Questa impennata inarrestabile (così appare adesso) potrà garantire le odierne qualità organolettiche? L’impatto investirà solo l’agroalimentare o si estenderà anche al commercio e ai consumi?

Non siamo in grado di rispondere a questi interrogativi preoccupanti, ma di una cosa siamo certi: l’andamento climatico ha perso la sua naturalità, la stagionalità, apportando pericoli sconosciuti che non si limitano al tempo che farà, ma che riguardano anche le piante.


Lo diceva anche Giovanni Verga per voce di don Matteo Curcio: il troppo stroppia, e questo troppo può diventare un vero flagello per l’amata uva. C’è chi si accosta, nelle zone alpine, alle varietà Piwi, con l’auspicio che il caldo progressivo preservi quelle aree e che i vitigni resistano alla sete e si dotino magari di una pruina antigrandine. Addentrandoci nel genome editing, le prospettive potrebbero diventare terribilmente affascinanti, e la pecora Dolly ci farebbe un baffo. Resistere agli agenti patogeni è sicuramente un aspetto fondamentale per la salute di una pianta, vite inclusa, ma immunizzare tutto sarà davvero un toccasana? Le domande incalzano, ma mancano le risposte, e ci riportando a quel troppo che stroppia, come fosse un rintocco di campana per il vascello cha naviga a vista nella fitta nebbia.

Se di troppo caldo ci si ferisce, o talvolta si perisce, l’opposto troppo, che ne è antitesi e burrascosa conseguenza, si trasforma in bomba d’acqua e grandine. Le immagini dei vigneti, e non solo, con i frutti deturpati da enormi chicchi di grandine sono sempre più frequenti, e le foto dell’ultimo cataclisma langarolo segnano dolorosamente la memoria.

I dubbi che nascono nell’analizzare il futuro del vino si incrementano di anno in anno, e non sono scalfiti dalle sperimentazioni genetiche a cui stanno andando incontro le viti, perché non si può resistere al cambiamento forzato del clima: il processo innaturale a cui è costretto lui stesso si traduce in una non naturalità nella maturazione dell’uva, che diventa critica non solo se si abbassa al di sotto di -22 °C circa, ma anche se la temperatura media diurna tra maggio e agosto/ settembre si innalza oltre i 30 °C, con venti caldi e piogge intorno a 10-12 mm. Ci stiamo avvicinando al baratro, con buona pace di scienziati e politici fautori del no change: la combinazione di maggior emissione di gas (effetto serra) e picco climatico potrebbe portare, nei prossimi ottant’anni, a un’impennata di 4-5 gradi.

Questo non va d’accordo con il recente trend consumistico, che si è avvicinato a una bevibilità sostenibile non solo a partire dalla vigna (problematicità a parte), ma ricercata anche in vini dalla minor gradazione alcolica e maggior energia in freschezza e saporosità; e non sarà certo una modifica del contenuto di residuo zuccherino per allargare la forbice del gusto secco a salvare il vino.

Sorprende in tutto ciò l’assenza di preoccupazione nei produttori di vino, questa è la nostra impressione, e speriamo di esserci sbagliati o di non aver colto che qualcosa si sta facendo, oltre alla ricerca sui profittevoli e performanti Piwi. Se questi vitigni dovessero essere la salvezza del vino del prossimo futuro, e nulla sarà fatto per bloccare l’avvento di un clima ancora più ostile alla vite e a molti altri esseri viventi sul pianeta, ebbene possiamo iniziare fin da oggi a gridare: allarme, allarme rosso.