l'eredità di Severino Garofano Giuseppe Baldassarre Quando iniziò la sua avventura in Puglia, il 9 settembre 1957, il ventiduenne Severino Garofano non immaginava che avrebbe contribuito in maniera decisiva all’avvio di un vero e proprio rinascimento del vino pugliese e meridionale. Nativo di San Potito Ultra, in Irpinia, si era diplomato in Viticoltura ed Enologia alla Scuola di Enologia di Avellino. Qui aveva conosciuto il Fiano, il Greco, il Piedirosso e soprattutto l’Aglianico, il vino che amava di più. A offrirgli un lavoro fu un noto imprenditore salentino, Francesco Candido, don Franco, il quale su suggerimento del cugino Pasquale Galluccio, studente di Agraria ad Avellino, aveva chiesto al preside della Scuola avellinese il nome di un giovane meritevole. Severino Garofano accettò subito, guardando alla Puglia come a una terra promessa, rinomata per “la dimensione delle vigne e la grandezza degli stabilimenti enologici” e per essere un grande serbatoio di antichi vitigni, “da cui mezza Europa attingeva tutto quello che occorreva per sanare le anemie di molti vini celebri”. Del suo arrivo a San Donaci gli rimase il ricordo del “sapore muschiato dell’Aleatico”, che ancora non conosceva, e di “tanti calici di fascinoso rosato, in una terra solare” a lui altrettanto sconosciuta. Come primo incarico, divenne responsabile dei quattrocento ettari di vigneto dell’azienda Candido di San Donaci, a contatto con altrettanti coloni non tutti allo stesso modo zelanti nelle operazioni di viticoltura. Poco dopo subentrò a Mario Livraghi nella conduzione enologica della cantina. All’inizio degli anni Sessanta approdò alla Cantina Sociale di Copertino come direttore tecnico, terra salentina fu l’incontro con la donna della sua vita, la moglie Teresa. avviando una fruttuosa collaborazione destinata a durare quasi cinquant’anni. Ebbe così modo di conoscere da vicino il Salento e di esserne conquistato; amava definirlo “una vigna tra due mari”, capace di esprimere “rossi possenti e solari e delicati rosati”. A unire ancor di più il suo destino alla Il negroamaro e il suo gusto nascosto Decisiva per Severino Garofano, e per l’evoluzione del vino pugliese, fu la conoscenza del negroamaro, vitigno ostico, difficile, ma anche versatile, prodigo di sfumature e capace di esprimere gran classe. Fu amore a prima vista. Nel 1958 un evento casuale gli diede l’opportunità di avviare una vera e propria sperimentazione, destinata a svelare un volto nuovo del negroamaro, un gusto rimasto fino a quel momento celato. Una conoscente, suor Lucia, lo invitò a raccogliere i grappoli superstiti di negroamaro in una vigna decimata da un’annata infelice. Prima della vinificazione, le uve furono lasciate su stuoie ad appassire. Il vino fu messo a maturare in piccole botti di rovere sloveno. Gli assaggi saltuari, ai quali partecipavano anche il proprietario della cantina e il cantiniere, si rivelarono talmente promettenti da indurre a proseguire gli esperimenti l’anno seguente. Alla vendemmia successiva da quella stessa vigna arrivarono in cantina cassette con i grappoli di negroamaro, che furono lasciati appassire su stuoie e vinificati separatamente per procedere a una valutazione comparativa delle due annate. L’esame delle note organolettiche lasciava supporre che l’appassimento delle uve di questo vitigno riuscisse a migliorare i valori olfattivi e quelli del gusto. In una terza annata si raccolsero le uve ben mature e i grappoli interi, trasportati in cassette di legno e poi sistemati sulle stuoie, questa volta in parallelo con altre due varietà: primitivo e malvasia nera. I risultati organolettici di tale procedimento si rivelarono positivi unicamente per il negroamaro, dimostrando che solo questa varietà beneficiava della concentrazione di tutte le componenti dell’uva per effetto dell’appassimento. Commentò Garofano: “Il negroamaro aveva tenuto racchiuso in sé per molto tempo il suo segreto. Un gusto nascosto, scoperto grazie alle sofferenze inferte ai grappoli nella loro interezza durante la fase delicata dell’appassimento. Occorreva un’annata difficile per indicare una nuova strada da seguire! Non tutti i mali vengono per nuocere”. Ai risultati di tali esperienze l’enologo irpino attinse qualche decennio più tardi, quando maturarono le condizioni per la creazione di rossi da negroamaro fortemente innovativi. Il vino del cuore Una delle più grandi soddisfazioni per Garofano fu quella di dar forma a vini di successo dal negroamaro nella Cantina Sociale di Copertino. Il Copertino Rosso di quella cooperativa era il suo vino del cuore, il primo vino, quello che, come il primo amore, non si scorda mai. Era semplice, pulito, delicato e accarezzava il palato con tannini morbidi. L’enologo era convinto che realizzare un buon prodotto in una cooperativa era ancora più difficile, ma si potevano ottenere grandi soddisfazioni, una volta superati gli impedimenti e organizzando la struttura come una grande azienda agricola: “È il mestiere del viticoltore quello più importante; se si lavora bene con l’assistenza agronomica a tutto campo, è possibile raggiungere l’obiettivo finale di guadagnare il mercato. Se riuscissimo a far capire che l’enologia da sola non basta, ma occorre che qualcuno responsabilmente tenga sotto controllo le vigne di questa grande azienda, l’uva fino alla raccolta, che imponga il rispetto delle regole, eccetera, avremmo risolto buona parte dei problemi. In mancanza di questa filosofia produttiva, c’è poco da pretendere da una struttura obbligata a vinificare”. Poco più che trentenne, Garofano iniziò a viaggiare, specie nei Paesi scandinavi, per far conoscere i rossi da negroamaro della cantina sociale di Copertino. Prima la Danimarca, visitata negli anni Settanta, poi fu la volta della Svezia, a partire dal 1985. I clienti scandinavi restavano incantati dall’evocazione dei valori delle terre mediterranee di cui i vini erano ambasciatori. “La penicillina può forse guarire gli esseri umani, ma è il vino che li rende felici”: era solito esordire. “Dove vive bene la vite, vive bene anche l’uomo” era la premessa per introdurre il tema del clima, del sole, della storia antica di secoli del vigneto allevato ad alberello senza sostegno. “Chi è nato in questo estremo lembo d’Italia” amava aggiungere “difficilmente sa immaginare l’esistenza di un paesaggio senza vigna e senza mare, tanto il Salento è ricco di viti che arrivano, a volte, sino ai margini degli arenili. È una terra piana, tutta marina, una lingua di terra fra due mari. Qui c’è la storia dell’antica Grecia, per non parlare del patrimonio monumentale delle chiese, delle cattedrali e dei castelli.” Passando alla descrizione dei vini, incalzava: “Il negroamaro produce un vino senza asperità, senza inflessioni nel gusto e con un profumo che inebria. Le uve di questo vitigno non danno mai un vino balbuziente. Anzi, nel caso della vinificazione senza macerazione, come per il rosato, il negroamaro raggiunge punte di fascino, di profumi e gusti delicati, come le rose”. La svolta Man mano si resero evidenti i tratti di forte personalità e presero forma le pionieristiche imprese professionali, che consentirono a Severino Garofano di contribuire in modo impareggiabile al rinnovamento enologico pugliese e calabrese, partendo dal negroamaro salentino. Tendenzialmente schivo e riservato, eppure molto affabile e generoso, rigoroso, colto, dotato di grande senso dell’umorismo e di ironia, innovatore, geniale, ma anche attento alla storia, senza lasciarsi condizionare dalla tradizione, da buon irpino mostrò un’incredibile tenacia e una inarrestabile determinazione. Viaggi di studio in Italia e nei più diversi angoli del mondo, incontri significativi e robuste letture rafforzarono il suo slancio nella ricerca di vie inesplorate e di sfide sempre nuove, mentre era per lui naturale diffidare delle mode e rifuggire da situazioni troppo statiche e scontate. Per approfondire la tecnica della degustazione, ancora non adeguatamente sviluppata, fece esperienza nel 1975 presso la Station Oenologique de Bourgogne a Beaune e l’anno successivo presso la Maison du Vin di Bordeaux. Visitò domaine e château francesi per meglio comprendere il ruolo della barrique nella maturazione del vino e, di ritorno, fece numerose prove utilizzando diversi tipi di legno e vari gradi di tostatura. Di certo, fu tra i primi in Puglia a utilizzare la barrique per la maturazione dei rossi da negroamaro. Intanto, nel 1956, a Guagnano, in provincia di Lecce, nel cuore della piana salentina, Francesco Taurino aveva acquistato la tenuta Notarpanaro, un appezzamento di terra con un suolo molto ricco di materiale roccioso, che richiese un lungo lavoro prima di poter ospitare una vigna ad alberelli di negroamaro e malvasia nera. Da quel vigneto, nel 1970, grazie alla geniale testardaggine del figlio, il farmacista Cosimo Taurino, nacque Notarpanaro, un vino in bottiglia, che inaugurò il percorso dei rossi salentini verso la modernità. Si trattava di un blend tra negroamaro e malvasia nera, un abbraccio voluttuoso e magico fra due varietà che sembrano fatte l’una per l’altra e che era già stato sperimentato nella formula del Rosso Salice. L’azienda aveva da poco come consulente Severino Garofano e parve opportuno a Francesco Taurino fargli incontrare suo figlio Cosimo, affinché lo dissuadesse dal lasciare la farmacia. Era l’inverno del 1973 e l’incontro sortì l’effetto opposto a quello desiderato. Garofano convinse Cosimo a partecipare con Notarpanaro al concorso Enologico di Milano, dove nel 1975 l’etichetta si aggiudicò la Medaglia d’oro. Nello stesso anno accadde per caso qualcosa di molto importante. Nella cantina Taurino c’era una vasca di mosto destinato alla produzione di vino da taglio che fermentava stentatamente per gli eccessivi residui di zucchero. Potenziali acquirenti toscani ne avevano intuito la qualità e Francesco Taurino era disposto a venderlo. Fu Severino Garofano a convincere Cosimo Taurino a trattenere quel vino, almeno in parte, per indirizzarlo all’imbottigliamento, dopo averlo fatto passare in barrique di rovere francese per un anno. Nacque così Patriglione 1975, dal nome della tenuta di provenienza delle uve. Un vino immenso, di una stoffa mai vista, che sancì una vera e propria rivoluzione nel mondo del negroamaro, indicando una luminosa strada da percorrere. Negli anni successivi quel vino non mancò di attirare i consensi entusiastici di personaggi del calibro di Luigi Veronelli, Leonardo Lo Cascio, Peter Matt, Hans U. Christen, Chris Zimmermann e Robert Parker. A poco a poco Severino Garofano e Cosimo Taurino divennero inseparabili. Raccontava l’enologo irpino: “Al rientro dai nostri viaggi di lavoro, ci incontravamo per valutare ciò che avevamo visto. Ci interrogavamo su tutto, su come comportarci, su come lavorare e quali strade percorrere. Avevamo un’intesa perfetta”. Intanto Severino Garofano divenne consulente di un’altra rinomata azienda salentina, Agricole Vallone, guidata all’epoca dal compianto Franco Vallone. In questo caso i suoi preziosi interlocutori furono la famiglia Vallone e Donato Lazzari, da anni infaticabile agronomo e lungimirante direttore dell’azienda. Insieme progettarono un nuovo grande vino, rivisitando in modo geniale la pratica sperimentata con le uve della vigna di suor Lucia: lasciarono parzialmente appassire i grappoli ottenuti da vecchi alberelli di negroamaro su graticci adagiati sui tetti e nel cortile di Castel Serranova, in vicinanza del mare, a pochi passi dall’oasi naturalistica di Torre Guaceto. Il nome, Graticciaia, fu scelto proprio per l’uso di queste particolari stuoie, fatte con canne intrecciate a vimini. Dopo la vinificazione, una lunga maturazione in barrique di rovere francese e l’affinamento in bottiglia furono i passaggi ulteriori. La tecnica fu perfezionata in tre successivi tentativi nelle annate 1983, 1984 e 1985, che non furono messe in commercio. Finalmente con il millesimo 1986, del quale sono rimaste oggi solo cinque bottiglie, prese il via un altro capolavoro, un’altra etichetta che dettava il nuovo paradigma del Negroamaro: estrema selezione delle uve, vinificazione impeccabile, impiego magistrale della barrique, perfetto equilibrio fra potenza ed eleganza, gusto profondo, vellutato e persistente, longevità. Anche in questo caso i risultati non si fecero attendere: il vino, esaltato da Luigi Veronelli, si impose subito in Italia e all’estero come uno dei più grandi vini pugliesi di tutti i tempi. Nell’azienda di Francesco Candido fin dal suo arrivo Garofano sognava di dar corpo a un Sandonaci Rosso; quando lo realizzò nel 1974, d’intesa con Alessandro e Giovanni Candido, propose di chiamarlo Cappello di Prete, dal nome della tenuta di provenienza delle uve. Intanto pensava a un progetto ancora più ambizioso. Dall’annata 1987, dopo lunghe prove, prese il via un altro grande classico dell’enologia salentina, Duca d’Aragona, un blend di negroamaro e montepulciano elevato in barrique. Il connubio col montepulciano arricchiva il vino di colore e di espressioni fruttate e speziate, conferendo morbidezza ed equilibrio al gusto in un insieme di formidabile caratura, capace di lunghe evoluzioni. Oltre il negroamaro L’amore di Severino Garofano per il negroamaro, pur intenso e profondo, non fu mai esclusivo, perché l’enologo irpino, nelle innumerevoli attività di consulenza, riuscì a interpretare con talento indiscutibile molti vitigni tradizionali e qualche varietà internazionale. Sottolineava che le etichette di successo erano nate da progetti fatti insieme con produttori coraggiosi e illuminati, scommettendo sulle potenzialità di alcuni vitigni storici e accettando la sfida di avvicinarsi agli standard qualitativi di regioni più blasonate. Quando nel 1991 Beniamino e Alberto D’Agostino rilevarono la preesistente cantina sociale di Gravina in Puglia e fondarono Cantine Botromagno, chiamarono Severino Garofano come consulente. Fu lui a puntare, per il Gravina Bianco, su greco e malvasia bianca, escludendo il bianco d’Alessano. Altro passo importante fu la creazione di Pier delle Vigne, un rosso longevo e di mirabile struttura, dall’incontro di tre uve di grande temperamento, aglianico, montepulciano e nero di Troia. Collaborò con la prestigiosa azienda di San Severo d’Alfonso del Sordo, lavorando particolarmente con bombino bianco, montepulciano, nero di Troia e suggerendo l’introduzione nelle vigne aziendali del negroamaro. Col bombino bianco realizzò la fortunata etichetta Catapanus. Nel 1998, mentre era consulente di tale cantina sanseverese, fu invitato a un convegno organizzato dall’associazione culturale Daunia Enoica sul tema “Economia Vitivinicola Dauna & Vino di Qualità”. Era il 12 giugno 1998, e fu accompagnato a visitare la sede appena ristrutturata della cantina d’Araprì, in via Zannotti. Fu il primo visitatore in assoluto della nuova e attuale sede. In quell’occasione apprezzò gli spumanti, ebbe parole di elogio e spronò i tre amici produttori a proseguire. L’anno seguente con Ulrico Priore incontrò a San Severo il giornalista Luigi Veronelli, che all’epoca era inviato del Giro d’Italia e raccontava il territorio enoico attraversato dai ciclisti. Fu anche amico di Peppe Zullo, noto chef contadino di Orsara di Puglia, al quale fornì preziosi consigli per la valorizzazione del tuccanese, vitigno a diffusione locale. Ebbe brevi collaborazioni con cantine lucane del Vulture, dove si concentrò sull’amato aglianico. Fin dagli anni Sessanta cominciò a conoscere il territorio calabrese, visitando diverse aziende vitivinicole per il prelievo ufficiale dei campioni destinati ai primi concorsi enologici. Nella zona del Cirò, la sua consulenza per l’azienda Librandi portò alla nascita dell’ottimo Duca San Felice, da gaglioppo in purezza e, con l’annata 1988, del mitico Gravello, blend di gaglioppo e cabernet sauvignon. Realizzò anche stupendi passiti, come Passo De Le Viscarde, per Agricole Vallone, da uve sauvignon blanc e malvasia bianca lasciate appassire su stuoie; l’Aleatico in purezza e Paule Calle per l’azienda Candido, un blend paritario di malvasia bianca e chardonnay; Gravisano per la cantina Botromagno, da malvasia bianca; Le Briciole, per l’azienda di famiglia, da chardonnay e sauvignon blanc. Nell’azienda di famiglia si cimentò anche col nero di Troia nel Sine Pari, e con l’aglianico, dando forma al Sine Die. Rosato controcorrente Fin dal suo arrivo in Puglia, Severino Garofano fu affascinato dal rosato salentino, ed estese poi la conoscenza ai rosati di tutto il territorio pugliese. Era convinto che diverse zone del tacco d’Italia fossero particolarmente vocate per la produzione di rosati, vero e proprio fiore all’occhiello, in grado di gareggiare per qualità con i migliori del mondo: “Non dobbiamo dimenticare che, per dodici mesi all’anno, il rosato rappresenta il vino più appropriato per molti piatti della cucina pugliese, con i quali realizza matrimoni eccellenti. La ristorazione regionale dovrebbe proporlo come prima scelta su diverse preparazioni”. Esortava però produttori e addetti ai lavori a mettere più passione per questa tipologia di vino. Sulla tecnica di produzione poi non ammetteva scorciatoie: per lui il rosato doveva nascere tale fin dall’inizio, e non essere né “un rosso anemizzato”, né “un bianco tinto” camuffato da rosato. “La produzione dei rosati di qualità richiede necessariamente che si utilizzino solo uve a bacca nera e solo vitigni vocati per questo tipo di lavorazione.” Una delle più colte, appassionate e indimenticabili apologie del vino rosato Garofano la realizzò nel 2007, quando confezionò una speciale selezione, chiamata Controcorrente, del suo rosato aziendale Girofle, in magnum di vetro scuro ospitata in un’elegante cassetta di legno. In etichetta la dicitura Controcorrente era accompagnata da una sorta di accorato manifesto in favore del vino rosato. La controetichetta recava un elogio del negroamaro e del rosato: “Un vitigno prezioso. Mi sono innamorato del negroamaro quando il mondo della produzione non era ancora pronto a fidarsi di quest’uva che dava vini densi, possenti, corposi, neri come un velluto. Fu un amore a prima vista per il Rosato, che vantava, non a torto, di essere il vino simbolo del focoso Salento. È un vino di colore, forza, poesia, dolcezza e profumi inconfondibili. Proprio il colore rende giustizia al suo fascino. Invoglia a sollevare il bicchiere all’indirizzo di persone felici”. Al collo della bottiglia era avvolta una stupenda poesia di Omar Khayyam: “La carovana della vita guardala, quando passa. Cogli la gioia di ogni istante! Non preoccuparti, oh coppiere, dell’indomani dei tuoi commensali. Tendici la coppa, versa il vino, ascoltami: la notte se ne va”. Un’ulteriore provocazione controcorrente l’ha proposta nel 2017, quando ha messo in commercio un numero limitato di bottiglie del rosato Girofle 2013, sottolineando la capacità del negroamaro vinificato in rosa di evolvere sorprendentemente per anni in modo meraviglioso. La degustazione confermava la personalità affascinante e riflessiva di un rosato da accostare a piatti di struttura adeguata. Dalla vendemmia 2000, il suo ultimo e massimo capolavoro, Le Braci, un’etichetta ottenuta da uve di vecchi alberelli, stramature fino all’avvizzimento degli acini; la maturazione prevedeva più di due anni in acciaio, con successiva sosta per un anno in barrique di rovere francese, dopodiché il vino tornava a riposare in bottiglia per almeno 18 mesi. Con questa etichetta irripetibile, di incredibile classe e longevità, l’enologo irpino sembrava tornare alla lezione della vigna della suora, realizzando in questo caso la disidratazione delle uve direttamente sulla pianta. L’azienda di famiglia Nel 1995 Severino Garofano, con i figli Renata e Stefano, iniziò l’esperienza di un’azienda vitivinicola familiare a Copertino, acquistando parte della proprietà del barone Bacile di Castiglione. Da allora gradualmente uscì di scena, abbandonando una per volta le diverse consulenze con altre case vinicole. Dopo una prima fase, nella quale furono realizzate anche altre etichette, la cantina si concentrò progressivamente sul negroamaro. Il primo rosato nacque nel 1996, mentre nel 2005 entrò in scena il leggendario Girofle. Il primo rosso a vedere la luce fu il Copertino Doc Eloquentia, da negromaro in purezza, a cui si aggiunsero Simpotica, blend di negroamaro e montepulciano elevato in barrique, e I Censi, da negroamaro e malvasia nera. Il vino come lo vedeva lui Giunto a meritata fama anche a livello internazionale, col passare del tempo divenne, dei vini, della storia e della cultura della Puglia, uno dei più profondi conoscitori e certamente un ambasciatore di riconosciuta autorevolezza. Con una penna elegante e forbita, raccontò i vini del Sud in libri e articoli su riviste specializzate o divulgative. Rilasciò numerose interviste, unendo a un’arguzia personalissima una lucidità impressionante. Ricoprì diversi incarichi dirigenziali nell’Associazione Enotecnici Italiani. Si occupò di ricerca enologica e di legislazione del vino. Innumerevoli i riconoscimenti. Alcuni anni fa gli fu attribuito il Premio Luigi Veronelli come miglior winemaker italiano alla carriera, con la seguente motivazione: “Irpino di nascita, pugliese di adozione, è una delle personalità che hanno determinato il riscatto della vitivinicoltura meridionale creando memorabili bottiglie, quando il Sud era soltanto terra da vino sfuso da taglio”. I suoi capolavori, i suoi vini intramontabili sono e resteranno autentici paradigmi, pietre miliari. Quando, nel 2007, gliene chiesi il segreto, rispose: “Il vino di qualità non si fa per caso; all’origine c’è un’operazione mentale, concettuale. Bisogna immaginare dove si vuole andare. Sognare di arrivare a un grande vino deve portare a verificare se la cosa è fattibile, senza la pretesa di volervi giungere a tutti i costi. È essenziale capire quel che ciascun vitigno è capace di esprimere in un determinato territorio. Il vitigno deve funzionare innanzitutto in campagna. L’enologia non può e non deve mettere a posto le cose. Anche se è difficile, bisogna fare ogni sforzo per portare in cantina tutta la qualità che c’è nell’uva, e cercare di perderne il meno possibile nelle fasi successive, ma non è prudente che alla fine il vino possegga più di quello che c’era nell’uva. L’enologia non può ridursi a una catena di montaggio. La sfida è dare identità ai vini che si producono”. E sull’importanza della comunicazione disse: “Produrre ottimi vini non è sufficiente: occorre soprattutto farli conoscere. Penso che in questa direzione molti possano dare il proprio contributo, non ultimi i sommelier, il cui compito diverrà sempre più impegnativo perché quotidianamente sono chiamati a sottolineare il significato e il valore dell’equilibrio, dell’eleganza e della finezza della produzione di qualità. Sono convinto che i produttori e i consorzi di tutela debbano scendere in prima linea, svolgendo un ruolo maggiormente attivo. Sono, inoltre, persuaso che una maggiore collaborazione e un più intenso scambio di informazioni tra produttori potrebbero essere di grande aiuto. Una realtà così grande e così composita non può che trarre grande vantaggio dalla circolazione delle idee”. Il 5 settembre 2018, l’ottantatreenne Garofano, due mesi dopo avere sperimentato la gioia della nascita della nipotina Clara, è tornato per sempre nella terra natia, nella verde Irpinia, come gli piaceva chiamarla, dove nonno Severino gli aveva insegnato ad assaporare il profumo intenso e schietto del vino nuovo spillato da una vecchia caraffa di coccio. A noi ha lasciato il ricordo grato e prezioso di un uomo speciale, e un’eredità di valore inestimabile da cui continuare a trarre slancio e ispirazione.