il senso delle scrittrici per il vino Eleonora Camilli Che il vino si presti a essere una valida chiave di lettura del contesto storico, socio-economico, politico e religioso di un territorio, attraverso la narrazione storiografica e iconografica, è cosa nota. Che permetta di mettere in luce aspetti differenti e oltremodo interessanti del discorso culturale, percorrendo gli itinerari insoliti e anticanonici della letteratura a firma di donne, è una piacevole sorpresa. La peculiarità delle scritture a firma di donne sta nella consapevolezza della consistenza materica delle cose: le donne immettono nella pagina una componente esperienziale intesa come utilizzo dei sensi. Mentre la tradizione poetica tende a sublimare la prosaicità del reale, mirando a un modello estetico di perfezione, le scrittrici ci consegnano la verità dell’esperienza. E proprio sull’onda di questa caratteristica è possibile ravvisare analogie ed elaborare collegamenti con il mondo della degustazione. E. Morgan Forster, scrittore inglese contemporaneo di Virginia Woolf, così commentava la scrittura woolfiana:“Amava ricevere sensazioni - visive, uditive e gustative - che lasciava attraversassero la sua mente dove incontravano idee e ricordi, per poi esprimerle di nuovo attraverso una penna o un pezzo di carta. Bisognava combinarle, organizzarle, enfatizzarle in un punto, eliminarle in un altro, dovevano nascere nuove relazioni e nuove note, fino a quando, da tutte queste interazioni scaturiva qualcosa. Quest’unica cosa sia che fosse un romanzo, un saggio, un racconto, una biografia o uno scritto privato da leggere agli amici, se otteneva un buon risultato, era in se stessa analoga alle sensazioni visive, uditive e gustative e la si sarebbe potuta descrivere meglio nel modo in cui descriviamo queste ultime; perché non era a proposito di qualcosa, era qualcosa”. Woolf è descritta come una donna sensualmente attenta, solita utilizzare la mente come una cisterna in cui immagazzinare gli stimoli provenienti dall’esterno. Un procedimento simile alla degustazione di un vino. L’atto del degustare si differenzia da quello del bere perché, svincolato dall’aspetto funzionale, richiama alla memoria sensazioni visive, olfattive e gustative che giungono al cervello sotto forma di stimolo e che, se riconosciamo, si traducono in percezione di un certo sentore. Degustare significa guardare al vino nella sua interezza, secondo paramenti comuni, tenendo in considerazione i suoi tratti distintivi, la sua storia e la sua evoluzione, e confrontandolo con altri della stessa tipologia. Il giudizio deve essere avulso da qualsiasi condizionamento o gusto personale, secondo quel principio che invale nelle degustazioni tecniche alla cieca: non conoscere l’identità del vino, il suo produttore o la sua fama garantisce una valutazione obiettiva. Analogamente Virginia Woolf, nel saggio intitolato (1932), suggerisce il modo in cui leggere un libro: “Il primo processo, quello di ricevere impressioni con il massimo possibile di comprensione, è soltanto la metà del processo della lettura; dobbiamo confrontarlo con un altro, con il più grande libro della sua specie. […] Alla fine, il solo consiglio che si può dare sulla lettura è quello di non seguire nessun consiglio, bensì il proprio istinto; fare uso della propria ragione, trarre le proprie conclusioni”. Il lettore comune È necessario quindi possedere una disposizione d’animo aperta agli stimoli che un libro offre; in seconda battuta, metterlo a confronto con altre opere dello stesso genere letterario. Ed è bene scegliere in modo del tutto libero, senza farsi influenzare dalla critica. Un anelito di libertà pervade l’esperienza letteraria e culturale di Virginia Woolf, icona nel panorama inglese e più ampiamente internazionale di primo Novecento. Come l’irlandese Joyce e Proust in Francia, la scrittrice si congeda dalla forma tradizionale del romanzo, sostituendo la trama e la concezione lineare del tempo con il monologo interiore, sviluppato attraverso il “flusso di coscienza”, una tecnica che riporta liberamente su carta i pensieri dei personaggi senza attenersi a un ordine logico. Significativa la similitudine che Woolf instaura tra lo Champagne e la bellezza del mondo: “Si dovrebbe essere pittori. Come scrittrice, sento la bellezza che è quasi completamente colorata, molto sottile, molto mutevole, che scorre sopra la mia penna, come se versassi una grande bottiglia di Champagne sopra una forcina”. Questo metodo è estremizzato nel suo romanzo più sperimentale, Le onde (1931): l’autrice tenta di escludere il tempo, attraverso una narrazione che non descrive la realtà come una successione cronologica di eventi, ma che procede per ritmo, cadenzata da immagini, ripetizioni, allitterazioni, ritorni, a rievocare le ossessioni dei personaggi, specchio del ritmo transitorio dell’onda, fino a raggiungere la musicalità per eccellenza, e cioè il suono del mare. Esemplificativo di quanto la scrittura woolfiana sia frutto della verità di un’esperienza concreta è l’episodio in cui Jinny, una delle protagoniste, si abbandona al soliloquio degustando un calice di Champagne: “Sollevo il calice dal gambo sottile, sorseggio. Il vino ha un sapore drastico, astringente. Nel bere non posso fare a meno di trasalire: ecco, i profumi, la luce, il caldo, tutti distillati in questo liquido giallo, infocato. Dietro la schiena, tra le scapole, un che di secco, di spalancato, si ravvolge dolcemente, e pian piano si addormenta. È l’estasi, la liberazione. La sbarra al fondo della gola si abbassa. Parole, vocaboli si affollano, si ammucchiano, premono gli uni sugli altri… Non importa quello che dico. Affollandosi, palpitante come un uccello, una frase attraversa lo spazio vuoto che ci separa. Va a poggiarsi sulle labbra. Mi riempio di nuovo il bicchiere. I veli tra noi cadono. Penetro nel calore e nell’intimità di un’altra anima”. La scrittrice dà voce a ciò che è comune, che riguarda tutte e tutti. Non è forse possibile familiarizzare con questa esperienza dei sensi che rimarca il valore socializzante del vino? Di contro alle costrizioni e all’austerità della società vittoriana e edoardiana, Virginia Woolf, insieme alla sorella pittrice Vanessa Bell, riuniva letterati, intellettuali e artisti di Cambridge nella residenza londinese al n. 46 di Gordon Square, nel distretto di Bloomsbury, creando un luogo di confronto e creatività. Uniti da ideali di pacifismo, ateismo, tolleranza, rispetto per le libertà individuali, condividevano la passione per l’arte in tutte le sue forme, intesa come mezzo per indagare l’esperienza umana. Con il loro pensiero influenzarono molti ambiti del sapere, tra cui la letteratura, l’estetica, la critica e l’economia, e negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale contribuirono a dar vita alla più grande rivoluzione culturale dopo il Romanticismo, il cosiddetto Modernismo. Oltre ad adottare uno stile di vita anticonformista, il gruppo di Bloomsbury rifletteva anche nella cucina il rifiuto ai vincoli imposti dalle rigide norme della società. Erano i gourmet dell’epoca: ricordano “l’importanza delle sensazioni in un’età che pratica la brutalità e raccomanda gli ideali”, sottolinea il già citato Forster. Amavano la cucina e i vini francesi, su tutti lo Champagne, protagonista dei loro incontri, celebrato anche in pittura, come fa Duncan Grant, che dipinge una bottiglia di Champagne adibita a vaso per pianta, secondo un uso adesso molto in voga, o Vanessa Bell, che ritrae una champagnotta aperta sul tavolo da cucina. Numerose sono le testimonianze sulla centralità dello Champagne per il gruppo: nel 1910 Roger Fry, pittore e critico d’arte, si reca a Parigi per acquisire opere di artisti ancora sconosciuti, quali Picasso, Van Gogh, Gauguin, Matisse, da esibire alla prima mostra dei post-impressionisti a Londra, e con esse inizia a importare Champagne. John Maynard Keynes, il celebre economista, è ricordato per essere “un devoto bevitore di Champagne” e per la frase che avrebbe pronunciato prima di morire: “Il mio solo rimpianto nella vita è quello di non aver bevuto maggior quantità di Champagne”. In Elders and Betters Quentin Bell, nipote di Woolf, ricorda che nel 1928 avevano organizzato un picnic nel Sussex, durante il quale bevvero Champagne e giocarono al gioco della bottiglia fino a romperle tutte. Nell’immaginario collettivo lo Champagne è sinonimo di eccellenza; a questo proposito è suggestiva la testimonianza di Nigel Nicolson su Virginia Woolf: “La sua compagnia era incantevole, quando la lasciavo mi sentivo sempre come se avessi bevuto due bicchieri di eccellente Champagne”. La predilezione per questa bevanda pone alcuni interrogativi sul controverso English Paradox, ossia sulla dibattuta paternità del vino più famoso al mondo. Secondo questa teoria, infatti, mentre Dom Pérignon cercava un modo per controllare la temperatura ed evitare che il vino rifermentasse, nella cosiddetta “Merry Olde England” di re Carlo II (1660-85) esisteva già la moda del vino effervescente, gusto che poi si diffuse in tutte le corti europee. Nel 1662, sei anni prima che Dom Pérignon fosse messo a capo dell’abbazia di Hautvillers, Christopher Merret, fisico e chimico inglese, presentò alla Royal Society un pamphlet in cui illustrava come soltanto bottiglie di vetro scuro con tappo di sughero legato al collo fossero in grado di resistere al processo di rifermentazione di un vino con aggiunta di zucchero e melassa, e come questa seconda fermentazione producesse delle bollicine. L’Inghilterra si è certamente distinta nel corso dei secoli per essere culla di molte personalità anticipatrici del loro tempo, soprattutto a livello culturale e sociale. Oltre che pioniera del romanzo moderno, ad esempio, Virginia Woolf fu anche teorica dell’emancipazionismo femminile, come attesta il suo saggio-manifesto Una stanza tutta per sé (1929): alla descrizione minuziosa di due pasti – l’opulenza del pranzo approntato per gli studenti del college maschile contrapposto alla penuria della cena servita alle studenti in quello femminile – affida la sua denuncia della sperequazione tra uomini e donne in termini di possibilità di accesso allo studio e alle libere professioni. La protagonista, alter ego di Woolf, nel raccontare il vitto maschile analizza gli effetti del vino sul corpo e sulla mente, notando come esso permetta di intavolare una conversazione razionale e di cogliere l’epifania del quotidiano, ossia il vero significato della vita, trasmesso da qualsiasi persona, oggetto o evento a chi sia in grado di coglierne il valore simbolico. Il vino che nell’episodio favorisce la visione è detto hock, tradotto in italiano con “eccellente vino del Reno”: hock, infatti, è un’abbreviazione, impropria ma diffusa nel mondo anglosassone, che designa il vino bianco prodotto nella zona del Reno. Deriva da hoch, che sta per Hochheim, e indica la regione di Hochheim am Main, a ridosso del Rheingau. Il vino di Hochheim acquisì particolare fama soprattutto in seguito al viaggio della regina Vittoria, che nel 1845 visitò la vigna più bella della zona di Hochheim. Di qui il detto: “A good Hock keeps away the doc”, che corrisponde al nostro “Una mela al giorno toglie il medico di torno”. Nel 1850, Georg Michael Papstmann, enologo e proprietario del vigneto, ottenne dalla Corona britannica il permesso di chiamare la vigna “Königin Victoriaberg”, collina reale, e di costruire un memoriale neogotico a commemorazione di quella visita. Oggi il monopolio del vigneto appartiene a Joachim Flick e il Riesling del Victoriaberg è servito in molti eventi della famiglia reale britannica. Il viaggio alla scoperta dei vini bevuti da Woolf e dal gruppo di Bloomsbury ci conduce nel Sud della Francia, della quale amavano i vini della Côte de Provence e la cucina tanto quanto l’arte post-impressionista. A partire dagli anni Venti, Duncan Grant e Vanessa Bell iniziarono a frequentare Cassis sur Mer, trovando la sua luce ideale per dipingere. Dal 1928 al 1938 affittarono La Bergère, un cottage nel mezzo di una vigna, dove comperavano Château de Fontcreuse sfuso, con cui riempivano bottiglie vuote di Porto nella cantina di Charleston, la residenza estiva del gruppo di Bloomsbury nell’East Sussex e sede di Omega, una società di artigianato d’artista. Frequentava il gruppo l’aristocratica ed eccentrica Vita Sackville-West, scrittrice e designer d’esterni, alla quale Woolf si ispirò in Orlando (1928), storia di un cavaliere, aspirante poeta, che da uomo si risveglia donna nel corso di tre secoli, dal XVII al XIX. La scrittrice ripercorre i mutamenti sociali e culturali dell’Inghilterra attraverso un abile uso di differenti stili letterari e l’incontro del personaggio androgino con i principali autori della letteratura inglese: in epoca elisabettiana Orlando in un’osteria sorseggia Malvasia discorrendo di poesia con Greene, un nobile decaduto e poeta. Nell’epoca vittoriana, Orlando, divenuto donna, incontra di nuovo Greene, ora cavaliere, completamente trasformato nelle fattezze e nel portamento, e si ritrova a conversare sugli stessi argomenti mentre beve Malvasia. La vicenda di Orlando che “muta abiti e genere senza perdere il nome” offre spunti comparatistici con la storia della Malvasia. Woolf cita la Malvasia già per l’epoca elisabettiana, nel Seicento: dal XV secolo, infatti, era divenuta il vino più importante d’Europa, merito della Repubblica di Venezia, all’epoca capitale del vino del Mediterraneo, che aveva creato uno scalo apposito chiamato ancor oggi il Fondaco della Malvasia. In realtà, si intendeva un vino prodotto non solo dal vitigno malvasia ma da una vasta gamma di uve, alle quali si applicava la medesima tecnica di produzione, e cioè l’appassimento o in pianta o sui graticci. Nella seconda metà del Seicento, a seguito della piccola glaciazione e dell’espansione ottomana nel Mediterraneo, nascono le tante malvasie denominate ancora oggi secondo la zona di provenienza (di Candia, di Lecce…) o le caratteristiche qualitative (aromatica, bianca, rosa…). In Italia, il vino e la letteratura a firma di donne si intrecciano nell’esperienza letteraria e culturale di Grazia Deledda, unica scrittrice italiana e seconda a livello internazionale a vincere il premio Nobel per la letteratura, nel 1926. Per l’occasione Deledda stappò una bottiglia di pregiato Nepente di Oliena, appellativo conferito da Gabriele d’Annunzio al Cannonau di quella zona, dopo un viaggio in Sardegna in compagnia di Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella. Il Cannonau di Oliena, conosciuto prosaicamente fino a quel momento come “su vinu de Uliana”, fu ribattezzato aulicamente “nepente”, dal greco “ne” (non) e “penthos” (tristezza), a rievocare la bevanda cui i greci attribuivano proprietà oniriche. Nel 1910 d’Annunzio redasse per il “Corriere della Sera” un articolo dal titolo “Un itinerario bacchico”, rielaborando una lettera precedentemente indirizzata a Hans Barth, giornalista tedesco, una sorta di moderno critico enogastronomico, che l’aveva posta a prefazione del suo volume Osteria. Guida spirituale delle osterie italiane. Vi recita: “Io vi prometto di sacrificare alla vostra sete un boccione d’olente vino d’Oliena serbato da moltissimi anni in memoria della più vasta sbornia di cui sia stato io testimone e complice… Non conoscete il Nepente di Oliena neppure per fama? Ahi lasso! Io son certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi, e scegliereste per vostro eremo una di quelle cellette scarpellate nel macigno che i sardi chiamano Domos de janas, per quivi spugnosamente vivere in estasi fra caratello e quarteruolo. Io non lo conosco se non all’odore; e l’odore, indicibile, bastò a inebriarmi. A te consacro, vino insulare, il mio corpo e il mio spirito ultimamente. Possa io fino all’ultimo respiro rallegrarmi dell’odor tuo, e del tuo colore avere il mio naso sempre vermiglio. E, come il mio spirito abbandoni il mio corpo, in copia di te sia lavata la mia spoglia, e colcata in terra a piè di una vite grave di grappoli; ché miglior sede non v’ha per attendere il Giorno del Giudizio”. Questo ridondante elogio sortì un effetto positivo sul destino del Cannonau: da uva da taglio, venduta nel continente e in Francia, iniziò a essere vinificato e imbottigliato in purezza, grazie anche all’ammodernamento delle tecniche produttive, favorendo così l’esportazione del prodotto in Europa e nel mondo. La letteratura a firma di donne si presta a rivendicare la cucina come spazio di creazione artistica e professionale, contro una tradizione patriarcale che la associava a un lavoro di cura e a un destino inevitabile per le donne. Ne è prova l’opera più nota della scrittrice danese Karen Blixen, Il pranzo di Babette. Ambientato nel 1885 a Berlevaag, nella Norvegia puritana, narra le vicende di Babette Hersant. Rivoluzionaria francese in fuga, nonché cheffe del prestigioso Café Anglais di Parigi, sconvolge i precari equilibri delle sorelle Martina e Philippa che l’avevano accolta. Dopo quattordici anni di vita relativamente appartata, anziché tornare in Francia grazie a una grossa vincita alla lotteria, spende tutto il denaro per realizzare un sontuoso pranzo a base di ricette francesi attraverso cui ridestare il piacere del corpo e dell’anima dei commensali, rivendicando la sua arte bianca come fulcro della sua esistenza. La comunità, abituata a un’esistenza di rinunce e privazioni, è inizialmente oltremodo sospettosa nei confronti del convivio a base di cibi e vini insoliti, poiché non concepisce il concetto di degustare, e cioè l’atto del mangiare e del bere senza il fine di nutrirsi, ma al solo scopo di soddisfare il piacere dei sensi. A questo proposito fa sorridere la reazione di una delle due sorelle di fronte ai vini giunti da Parigi: “Tuttavia Martina rimase allibita quando vide rotolare fino in cucina una carriola carica di bottiglie. Toccò le bottiglie, ne prese in mano una. ‘Babette, che cosa c’è in questa bottiglia?’ chiese sottovoce. ‘Non è vino?’ ‘Vino, madame!’ rispose Babette. ‘No, madame, è un Clos Vougeot 1846!’ Dopo un attimo soggiunse: ‘Viene da Philippe, in rue Montorgueil!’. Martina non aveva mai sospettato che i vini potessero avere un nome, e fu messa a tacere. Trascorse una nottata quasi insonne; pensava a suo padre e le pareva che proprio nel giorno del suo compleanno lei e sua sorella avrebbero ospitato in casa sua un sabba di streghe”. Il pranzo si apre con brodo di tartaruga e Ammontillado, seguito da Blinis Demidoff, crespelle salate di origine russa servite con panna acida e caviale, accompagnate da un Veuve Clicquot del 1860. Sarà un generale a intuire l’esclusività del banchetto, ravvisando il tocco della grande cheffe francese nelle memorabili Cailles en sarcophage (quaglie in crosta con salsa di foie gras e tartufo) che egli stesso aveva consumato come cliente nel prestigioso ristorante parigino. E proprio il Grand Cru Clos de Vougeot del 1846, che Blixen definisce “il più nobile vino del mondo”, consente all’uomo di abbandonarsi a un discorso che sovvertirà i destini dei personaggi: il vino e il cibo, inizialmente temuti, divengono mezzo per assurgere alla purificazione dell’anima. Si tratta dello stesso principio che Woolf aveva teorizzato nella Stanza: “Nel frattempo i calici da vino erano stati riempiti di giallo e poi avevano brillato di cremisi; erano stati vuotati; erano stati riempiti. E così, per gradi, veniva accesa – a metà lungo la spina dorsale, in un punto che è sede dell’anima – non quella piccola e violenta luce elettrica che chiamiamo conversazione brillante quando la vediamo apparire e scomparire all’improvviso sulle nostre labbra, ma quel bagliore più profondo, impercettibile e sotterraneo, quella fiamma dal colore giallo intenso che è lo scambio razionale. Senza nessun bisogno di affrettarsi. Nessun bisogno di fare scintille. Nessun bisogno di essere altri, che se stessi”. Un suggerimento che giunge da un’altra epoca, ma che sembra essere stato scritto appositamente per chi pratica l’esercizio della degustazione.