uff... stampa Valerio M. Visintin Ufficio stampa. Ufficio stampa. Ufficio stampa. Provate a ripetere queste due parole all’infinito e vi sembrerà che non abbiano più alcun senso. Esattamente come accade nel mondo del food, anche senza far ricorso a questo artificio. Con l’eccezione di alcuni casi di buona condotta, il ruolo dell’ufficio stampa dei ristoranti ha imboccato strade impreviste, allontanandosi dalla retta via. A guardarlo con gli occhi di un tempo, non lo riconosceremmo più. Ma non è affatto motivo di scandalo, badate. Non pensiate che la mia veneranda età mi porti a valutare l’evoluzione della specie con diffidenza o con rimprovero. Anzi, per dimostrarvi la mia approvazione, vi illustrerò le differenze tra la superata concezione del ruolo di ufficio stampa e quella più recente e innovativa. Tanto per cominciare, il vecchio ufficio stampa del food era un’anima segreta, che agiva invisibile, dietro un monitor o all’altro capo di un telefono. Il suo compito principale era redigere comunicati in un idioma comprensibile alla maggioranza della popolazione giornalistica, sottolineando puntualmente fatti, luoghi, date e orari. I rapporti con noi cronisti erano cordialmente distanti, confinati a uno scambio professionale di reciproco disinteresse. Non per malanimo. Ma perché i ruoli erano freddamente slegati, in ragione di una logica etica condivisa da tutti. Quanta paccottiglia in quel cerimoniale. Meno male che oggi è tutto più agile, moderno, libero, oserei dire. L’avanguardia più illuminata di questa professione impone di uscire allo scoperto, di metterci la faccia. E, se possibile, anche la coscia. Ma in tal caso, il consiglio è rivolto alle giovani donne. Per costoro sarà vieppiù indispensabile un profilo sui social da infestare con foto delicatamente pruriginose, che consentano di solleticare i bassi istinti dei giornalisti di sesso maschile e, contemporaneamente, di arrotondare i proventi mensili mettendo in scena réclame surrettizie di bevande, reggipetti e tisane corroboranti. Qualche soggetto femminile recalcitra di fronte a questa doppia funzione. Ma non dubito che presto, rinsavendo, vi si adeguerà. Nell’odierna concezione della professione, il comunicato stampa ha rielaborato le sue intrinseche gerarchie. Le mere informazioni, così care all’antica guardia, sono declassate a un ruolo di contorno. Recentemente, per dire, mi è capitato di non trovare l’indirizzo del locale di cui si straparlava nel testo. Prendo il telefonetto e contatto il genio dal quale arrivava l’email. Mi ha risposto come segue, col tono paterno che si usa per i vecchi pazzi: “Ah, non c’è l’indirizzo? Be’, quello si sa. Comunque, grazie. Lo aggiungerò. Contento?” Aveva ragione lui. Ciò che conta è lo storytelling. Trattasi di un genere di arte narrativa tutt’altro che minore, densa e frastagliata, che tocca molte corde. Pathos e afflato lirico raggiungono l’apice letterario quando si illustra l’apertura di un nuovo ristorante. È in quel contesto che la potenza espressiva del moderno ufficio stampa del fuff veleggia col vento in poppa. Si snocciolano le dettagliatissime biografie dello chef e dell’immancabile architetto, che muovono dalla più tenera infanzia, passando attraverso le memorie di tutto il parentame. Sono perle che andrebbero rilegate in pelle e vendute in edicola a dispense mensili:“La vita e le opere dello chef Baldo Cacciaviti. Con il primo fascicolo, la copertina e una riproduzione in miniatura della dentiera di nonna Licia!”. L’attività dell’ufficio stampa di tendenza, peraltro, estende la propria giurisdizione ben oltre, concentrandosi su incontri d’alto bordo. Mi riferisco a quelle che chiamiamo “cene stampa”. Che bei momenti! I giornalisti del fuff sono convocati ai vernissage dei ristoranti tramite cartolina precetto, come si faceva con il servizio di leva. I renitenti verranno puniti con sospensione immediata dal giro dello scrocco. Una minaccia che blogger e giornalisti temono più della peste bubbonica. Pur di rispondere alla chiamata, i coscritti si trascinano sul posto in salute e in malattia. Non è raro, in quegli affollati consessi, scorgere feriti, zoppi e acciaccati. “Ma quello lì al buffet col palo della flebo non è mica il Lonati?” “Lo hanno operato stamattina alla prostata, ma non poteva mancare…” Infine, c’è la più agguerrita e feroce delle mutazioni genetiche. Quella che riassume tutte le mansioni in uno stesso individuo. Mi riferisco al quel genere di critico gastronomico (quasi sempre di un certo prestigio), che cura l’ufficio stampa dei ristoranti e, all’occorrenza, non disdegna l’ingaggio in qualità di consulente. Che cosa significa “consulente” in questi casi? Nulla. È soltanto un commercio di amicizie, di influenze e di promesse che vellicano l’ego degli chef. Questi simpatici malandrini giocano sporco su più tavoli, senza nemmeno curarsi di non darlo a vedere. Perché, nel mondo del fuff, tutti sanno e nessuno apre bocca. Siamo i comunicatori dell’omertà. Mi diceva l’altro giorno un’amica del settore: “Il critico che fa consulenze? Ormai è la normalità. Ma la cosa grave è che chi si comporta correttamente non è premiato. Quelli che fanno il doppio gioco sono disposti a scrivere pure gratis perché pagati dal ristorante. Con un vantaggio per le testate che risparmiano sul compenso. Se tu sei retto, invece, non crei occasioni da marchette. No?” Io che posso rispondere? Tiro dritto e sguazzo allegramente in questo liquame. E se ogni tanto mi fermo, è soltanto perché mi vien voglia di piangere.