Le suggestioni derivanti dall’odierno linguaggio del vino, come le parole biologico, biodinamico, organico, natural, vegan, sono
contraddittoriamente affascinanti. Questa “save the planet philosophy” è deflagrata nella sfera agricola e non solo, con intenti nobilmente etici,
nella prospettiva di far bene all’ambiente e all’uomo.
Il peso e lo spessore etico di questi nuovi aggettivi identificativi del vino, spesso sintetizzati in “bio”, sono ormai d’uso comune, ma presentano
molte antinomie interpretative, spesso generate non solo dalla sfuggente individuazione della purezza oggettiva dei termini, ma anche – o
soprattutto – dal modo “business” con cui sono qualitativamente sventolati al consumatore. La vera qualità non ha nulla di predestinato, e il “bio”,
con i suoi annessi, non può garantire quella destinazione.
L’ultimo dibattito su questo tema verte sulla sostenibilità. La Treccani la definisce così: “Nelle scienze ambientali ed economiche, condizione di
uno sviluppo in grado di assicurare il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni
future di realizzare i propri”. Come diceva Martin Luther King: la tua libertà finisce dove inizia quella degli altri. Si attiva però una
circolarità di interpretazioni che, annullandosi l’una con l’altra, produce più effetto che reale sostanza.
È ciò che accade quando si afferma, spesso senza intenti colpevolizzanti ma di realizzazione della vendita, una distanza tra mondo “bio” e il
convenzionale. Distanza di filosofia? Sì. Distanza di qualità? Nì.
La sostenibilità legata al vino ha un valore immenso, ma è sensibile a molte interpretazioni, anche discutibili. Non ci addentriamo in congetture
semantico-filosofiche; il vino si può apprezzare, anzi si deve apprezzare, nella sua pura semplicità, che l’annoda alla sostenibilità. La domanda è:
chi sostiene la sostenibilità? Uno studio della Sonoma State University ha raccolto le sfaccettature economiche che caratterizzano i diversi aspetti
del produrre vino, partendo dal minor ricorso alla chimica in vigna nella viticoltura sostenibile, unita però al maggior costo del lavoro, magari
abbinato a una produzione più bassa rispetto a quella convenzionale (che ha come sinonimo, attenzione, il tradizionale).
Chi paga questa eventuale differenza di prezzo? Si compra a un prezzo più alto per la certezza di una superiore qualità del vino sostenibile, che
tuttavia non può essere garantita, oppure perché salverà il pianeta? Ragionando in questi termini, il dibattito resterebbe sterile, perché qualcosa,
anche di sforzo economico, deve essere fatto per salvare il pianeta, ma le mosse non possono essere unicamente “bio”. Anche la contrapposizione tra
sostenibilità e convenzionalità, pur evidenziando che da una parte c’è più salubrità, non chiude il cerchio magico del save the planet, condannando
una e salvando l’altra.
Gli economisti dicono che per agire efficacemente nella sostenibilità, ma anche nelle altre filosofie produttive non legate al convenzionale,
bisogna considerare il risvolto economico. In altre parole: quanto si è disposti a spendere per sostenerle? Occorre partire dall’analisi di quale
tra queste filosofie abbia più appeal nelle generazioni considerate regolari consumatrici di vino. La valutazione dell’impatto nell’immaginario
vitivinicolo premia molto la sostenibilità rispetto al biologico, biodinamico e altro. Alle nuove generazioni la sostenibilità appare più chiara,
più semplice da identificare, e una sua certificazione creerebbe un positivo stimolo all’acquisto.
L’argomento è trattato in molti studi statunitensi, perché allontanarsi dal convenzionale equivarrebbe a sostenere costi più alti da distribuire sul
prezzo di vendita. Ed ecco l’arcano: chi è disposto a spendere di più, e se sì, quanto di più? Il risultato è stupefacente: solo il 14 per cento
delle generazioni che bevono regolarmente vino è pronto a spendere più di 4 euro a bottiglia, mentre il 43 per cento dei millennials non è disposto
a riconoscere l’aumento. Gli economisti sono convinti che, senza riconoscere il maggior costo, e quindi un prezzo di vendita più alto, il sistema
della sostenibilità potrebbe andare in crisi.
Si corre anche il rischio di allontanare una fetta di popolazione dal vino, perché il rincaro inciderebbe troppo sulla borsa della spesa. Non solo:
anche una pseudo demonizzazione del convenzionale potrebbe attivare una paura salutistica e diventare motivo di abbandono della nobile bevanda. Ciò
che serve è la chiarezza, una comunicazione accurata, a favore e non contro. Se il convenzionale del vino diventasse insostenibile, e non certo per
il prezzo, e il sostenibile implodesse nell’acquisto insostenibile, si potrebbe configurare uno scenario dai foschi contorni per il vino, attirato
in quella sfera Ogm di potenziale destabilizzazione dell’equilibrio ecologico, quindi tutto il contrario di convenzionalità, sostenibilità,
biodinamica, biologica e altro ancora. Allora sì, sarebbero dolori, per tutti.