io e Caterina a Natale
Valerio M. Visintin

A casa mia, si infilano i lunghi giorni delle feste come si indossa un abito fresco di tintoria. Nuovo e consueto. Per me, Natale è questo: un pensiero libero tra mille costretti; una carezza tra uno schiaffo e l’altro; una scialuppa di salvataggio, sia pure limitata nel viaggio.
Quando mi sveglio alla mattina, ho una nuvola di meno per la testa. Quando rientro a casa dal lavoro, ho un abbraccio in più per Caterina, che ha ricamato nastri e lucette nella sala migliore. Se non è un piccolo idillio quotidiano, è una tregua disarmata tra me stesso e le trame vischiose di una vita incerta.

Sino a che, ad annate alterne, non ci rapisce l’idea malsana di organizzare una cena a casa nostra. Sappiamo perfettamente che si tratta di un proposito folle, conosciamo a memoria il calvario che ci si spalancherà innanzi. Ma, come se si producesse un baco nella nostra memoria familiare, torniamo a ricalcare i nostri errori.

“Cenetta intima, però. Solo due coppie. Così stiamo comodamente seduti a tavola”, ammonisce Caterina.
Proposito saggio, quanto effimero. La lista degli invitati si nutre da sé, come certe profezie. “Dai, il tavolo è da otto…”
“Non più di dieci, però.”

Nel giro di pochi minuti – cullati da un valzer di nomi di amici, parenti, amici dei parenti, parenti degli amici – la cena a tavola per pochi intimi tramonta e sorge l’urgenza di una cena in piedi per venti persone, almeno.
Da qui in poi, la narrazione si scinde.

 
Io.
“Però, stavolta cucino io, Caterina. Nessuna interferenza.”
“Ma certo, Valerio. Sei tu il grande gastronomo.”
Non fosse per l’aria di festa, coglierei l’inganno e il sottile sarcasmo di quelle parole. Nel fondo della mia coscienza, io so che non me lo permetterà. E lei sa che cercherà di spodestarmi con qualsiasi mezzo. Eppure, recitiamo lo stesso identico copione da un quarto di secolo.