Chianti Classico, suoli solitari Roberto Bellini “Gli agricoltori e i forestali devono applicare metodi che preservino la qualità dei suoli”, definì il Consiglio d’Europa nel 1972, redigendo la Carta europea del suolo. In quegli anni il Chianti Classico non attraversava il miglior periodo della sua gloriosa storia. Si parlava di “un vino di fresca beva e piacevolezza”, con il sangiovese completato da percentuali di trebbiano toscano e malvasia del Chianti, che poteva essere rifinito con canaiolo nero, mammolo, colorino e san colombano. Poco era cambiato rispetto alla formula del barone Bettino Ricasoli, che nel 1872, in una lettera al professor Studiati dell’Università di Pisa, nell’analizzare il Chianti parlava del sangioveto che dotava il vino di profumo e di vigorosa sensazione, mentre il canajuolo ne calmava l’irruente durezza senza pregiudicarne il profumo, essendo di per sé molto profumato: cosa questa graditissima al barone. Poco interessante era la malvasia (malvagìa): da evitare per Ricasoli se si voleva ottenere un vino da invecchiamento, in quanto spogliava il sangiovese del suo carattere austero e diluiva gli effetti organolettici del canaiolo, rendendo il vino meno incisivo nella struttura, pur apportando sapore; in poche parole, contribuiva a creare un Chianti di pronto impiego, quell’immagine da “fiasco in tavola” durata per decenni. A parte le straordinarie intuizioni di Ricasoli, prima del 1972 non c’è traccia di studi sul Chianti Classico e sul connubio suoli/vitigni. Altri venti enologici spiravano dai quadranti bordolesi e sembravano voler desangiovesizzare l’areale chiantigiano, come se quel vitigno avesse perduto la propria attitudine a fare buon vino. Qualcuno si era pure messo d’impegno per non migliorarlo, basti ricordare le inopportune scelte dei portainnesti per i reimpianti agli inizi degli anni Settanta. È anche vero che nel 1972 mancava un po’ di lungimiranza, le aziende che etichettavano il proprio vino erano poche, e solo da loro poteva partire la . Non fu di aiuto una Cooperativa di vignaioli che pensò di arricchire la propria etichetta con gli stemmi del Terziere del Chianti, ovvero Gaiole, Castellina e Radda: invece di esaltare la singolarità del terroir, si mirava a evidenziare il blasone tri-enografico. soil revolution Qualcuno, a dire il vero, cercava di trasformare il Chianti Classico, dopo essersi accorto che la gabbia legislativa non consentiva di superare la barriera di una mediocre qualità. Eppure, il cambiamento non prese la strada della valorizzazione del connubio vigna/vitigno, complici l’exploit del Sassicaia e il crescente appeal di vitigni come il cabernet sauvignon e il merlot. Il Chianti Classico era sballottato tra i venti della tradizione e i vortici enologici girondini; in molti casi si puntava all’esaltazione “new world” del sangiovese, in solitario o in , più che a una territorializzazione dell’arcigna anima toscana del vitigno. blend L’interrogativo che nasce oggi assume anche la forma di un rimpianto: se il sangiovese di allora si fosse spogliato dell’apporto delle uve bianche, e pure di quelle a bacca nera, se avesse vissuto i suoi suoli, chissà quali terroir avrebbe costruito. Una nuova Borgogna o un rinfrescato Montalcino? Un Bordeaux di Fattoria? Oggi parleremmo di comuni, frazioni e vigneti, magari di Fattorie, evitando ai sommelier complicati arzigogoli per spiegare al cliente straniero la differenza tra Riserva e Gran Selezione. Con i se non si va avanti, e come dice un proverbio toscano “due piedi non istanno bene in una calza”, ma la calza del Chianti Classico ha rischiato di veder contenere sempre meno chiantigianità e sempre più esterofilia. E di territorio ancora non si voleva parlare. La modifica del disciplinare del 5 agosto 1996, che sancì l’autonomia del Chianti Classico dal Chianti, regolamentò l’accesso dei “vitigni comunitari” e rimodulò l’apporto delle uve tradizionali, a bacca nera e bianca, arrivando qualche anno dopo a proibire l’uso di quelle bianche, una decisione che, per via dei problematici cambiamenti climatici, sembra passare già per un rimpianto. Oggi il Chianti Classico si sta interrogando, la politica locale pare essersi avvicinata a talune problematiche vitivinicole e mostra un certo interesse per il senso di territorio; in questo contesto il vino di vigna potrebbe fare la parte del leone. Sarebbe bello poter parlare di “stampo enologico chiantigiano”. Innanzitutto è necessario conoscere il suolo viticolo del Chianti Classico, per preservarne la qualità e celebrarne le differenze, stilando una gerarchia organolettica al pari di quanto accade in nobili territori enoici, come il Médoc e la Côte d’Or. Non è tuttavia cosa facile, a causa del sistema suolo assai variegato; inoltre le differenze di altitudine marcano la struttura del vino, acuendo talvolta la freschezza, o la durezza del tannino, oppure inasprendo la succosità, o centrando l’equilibrio tra durezze e morbidezze. Se poi aggiungiamo la varietà dei profumi, derivanti da terreno e da altitudine, il metronomo olfattivo può scandire battiti fruttati e floreali, sfumate frequenze di tabacco e un didascalico tono balsamico per la flora boschiva che abbraccia i vigneti, elementi che arricchiscono il Chianti Classico di straordinarie suggestioni organolettiche. In un recente studio sul concetto di terroir si legge: “La conoscenza della tipicità del vino è espressione di un’elaborazione locale o comunale di un’azienda viticola”, che deve proporsi e attivarsi come convinta promotrice del proprio cambiamento per allargalo ad altri, condividendone lo scopo. Piace molto questo concetto, tutto italiano, di “conoscenza della tipicità”, perché per distinguere un vino in ambito locale è indispensabile mettere in salvo la biodiversità della filiera vitivinicola. Questa può essere riassunta nell’ormai superato concetto di zonazione, e nemmeno la naturale sostenibilità è capace di soddisfare le esigenze e rispondere alle domande. Deve intervenire il fattore umano, che isoli e naturalizzi il suolo a vigna e non associ la Denominazione di Origine – specie in un areale come il Chianti Classico, che amalgama più territori – soltanto a storia, notorietà, valore degli usi e patrimonio culturale. Per definire la personalità di un vino è fondamentale avere a disposizione un vitigno che senta il suolo e ne percepisca l’essenza. Per il Chianti Classico a ricoprire questo ruolo è il sangiovese, vitigno dotato di natura camaleontica, che potrebbe diventare un vantaggio enologico qualora si decidesse di farla emergere. Il suolo diverrebbe un elemento a favore, perché permetterebbe al sangiovese di distinguersi a livello comunale, locale e per frazione, se non, più opportunamente, per vigneto o Fattoria, e i suoli del Chianti Classico hanno tutte le potenzialità per esaltarne i pregi. Occorre affidarsi non solo al substrato della terra, ma anche a un’adeguata selezione clonale, allo studio del microclima e all’imprescindibile fattore umano: sapere e voler fare. E nel Chianti Classico cresce la schiera di produttori che si sta seriamente interessando a rinnovare la filosofia vitivinicola. L’areale geologico del Chianti Classico è un’estesa porzione collinare, a cavallo delle province di Firenze e Siena, racchiusa tra il Valdarno a est e la Valdelsa a ovest; a nord è lambito dal fiume Elsa, a sud dall’Arbia e dall’Ambra. È impresa ardua collegare l’identità del sangiovese ai terroir del Chianti Classico, dato che il suolo è molto eterogeneo. Per orientarsi nella geologia del Chianti Classico, può risultare utile una suddivisione, a grandi linee, in tre zone, partendo da oriente. Il “terrachiantista” Maurizio Castelli afferma che il sangiovese “è uno storico vitigno da uvaggio”. Oggi si direbbe da blend, ma ciò non cambia l’analisi, che considera questa storicità un impedimento alla conoscenza di come possa essere condizionato dai differenti terroir. Poco vale il paragone con il pinot nero di Borgogna o con il nebbiolo langarolo, perché questi hanno una mono-storicità ricca di studi agronomici e di indagini clonali che il sangiovese non può sfoggiare. La parte est dell’areale della Docg è segnata da nord a sud dai monti del Chianti, che fanno da frontiera verso Valdarno. Il terreno, detto Macigno del Chianti, è dotato di suoli sabbiosi con scheletro, scarsi in materiale organico, ben drenati, ma che in una stagione molto arida possono essere sottoposti a stress idrico. Se condotto in modo non adeguato in vigna, qui il sangiovese corre il rischio di generare un vino che matura velocemente in bottiglia, perdendo quell’intensità olfattiva di fresca marasca, talvolta corniola, lampone e fragola di bosco. Anche l’acidità totale rischia di scivolare verso in basso, mentre la materia polifenolica resta nella media, con frequente percentuale medio-bassa di alcol. Il Macigno però non è uniforme. Scrive il geologo Andrea Garuglieri: “In questa dorsale d’alta collina anticlinale che si rovescia leggermente a est, la presenza dell’arenaria formatasi dalla sabbia con un processo di sollevamento dei fondali marini, litificazione, trasformando tra l’altro i sedimenti in roccia, i limi in siltiti e le argille in argilliti, comporta disparate differenziazioni anche a brevissima distanza”. Il sommelier tuttavia non si ferma al primo ostacolo, e così i vignaioli del Classico, attratti da queste distinte singolarità che potrebbero far emergere un autoctono nell’area viticola, avvicinandola agli château bordolesi, ai della Côte d’Or e alle menzioni del Barolo. genius loci climat Nell’areale discendente apparentabile al Macigno del Chianti, che trova a nord il monte San Michele (alto 892 metri), e chiude a sud, dopo Gaiole, lambendo il confine orientale del comune di Castelnuovo Berardenga, il sangiovese è a proprio agio. In questo territorio il vino si esprime in termini di eleganza più che di struttura, con una vivida cromaticità e un rimarchevole fruttato da piccoli frutti rossi, come corniola, fragolina di bosco, lampone, mela selvatica, ribes rosso e azzeruolo. Quando le radici del sangiovese incontrano più arenaria, ecco spiccare la mammola e il giaggiolo, talvolta il glicine. C’è sottigliezza nella liquidità e un tannino più arrendevole, ma non per questo remissivo, dal gusto non pienamente saporito e pepato per mancanza di limo e argilla. Il sangiovese infatti gradisce il terreno con limo, argilla e scheletro, perché riesce a disegnare armoniose geometrie di qualità e una prospettiva di longevità. Nella parte meridionale della Docg Chianti Classico, attraversando da est a ovest il territorio del comune di Castelnuovo Berardenga, il Macigno alterna la base di alberese (a sud di Brolio) con quella di arenaria che si spinge verso il torrente Ambra; il terreno è ricco di argilla pliocenica e calcare, talvolta anche argille sodiche, nella media più calcaree che sodiche, con sabbia e tufo. Il Sangiovese appare molto strutturato. Il colore ha una diversa luminosità nel rosso carminio, che vira al granato. Il quadro odoroso mostra un minor fruttato, frutti dalla polpa un po’ più scura, ma non modifica il floreale, che aggiunge alla tipicissima mammola il giaggiolo. La complessità olfattiva spesso è rifinita da pepe in grani e nuance di tabacco dolce, con aliti balsamici; in piena evoluzione sono frequenti anche una sfumata terrosità e cenni di ruggine. Il confine settentrionale di Castelnuovo Berardenga fa da base a una sorta di triangolo isoscele che s’incunea verso nord nei terroir di Castellina in Chianti (a sinistra), Gaiole (a destra) e Radda (in alto): qui c’è molta concentrazione di alberese. Si tratta di una roccia compatta calcareo-marnosa che si alterna con marnoscisti e argilliti; non si trova del tutto allo stato puro, quindi le “contaminazioni” giocano un ruolo decisivo nel differenziare il vino. Il Sangiovese risulta di colore rubino/carminio, che riluce in brillantezza e anticipa la natura rinfrescante della sua saporosità. I profumi fruttati tornano a inselvatichirsi, sfiorando qualche tono vegetale, trattengono però il floreale del vitigno e si completano con effluvi di bacche di pepe rosso. Il gusto è intriso di nervosità tannica, con sensazioni fruttate e una succosa vibrazione acido-tannica quasi amaricante, soprattutto nella prima fase evolutiva. Nel Chianti alcuni tipi di terreno sono composti da galestro, termine toscano da non associare a formazioni geologiche, ma a variegate tipologie di sedimentazioni che apparentano un amalgama di argillite, marna argillosa e siltite. Queste combinazioni creano il tipico terreno scistoso o a scagliette. Tutto il Chianti Classico ha terreno con galestro: il suo sedimento fine si trova nel Macigno e nell’alberese, nella formazione di Sillano (Panzano in Chianti e Mercatale Val Pesa) e anche nella pietraforte, molto simile al Macigno del Chianti. Il galestro è una manna per la vite, la fa prosperare in equilibrio vegetativo, riducendo lo stress idrico e preservando gli acidi. Un tempo il sangiovese allocato su galestro faceva dormire sonni tranquilli: dava ricchezza di polifenoli, trama colorata, certezza di longevità abbinata ad armoniosa finezza. Poi è arrivato il cambiamento climatico, con stagioni calde e siccitose, e il galestro è andato in crisi perché viene intaccata la prerogativa di longevità del sangiovese: si scotta. Si rimpiangono i frutti maturati sul Macigno e la sabbia, e si inizia a ponderare che un mix di terroir può aiutare più dell’uso di qualche uva internazionale. Un viaggio nel Chianti Classico fa scoprire anche il galestrino, originato dal disfacimento d’argillite, quindi più fine; invece la presenza della marna è svelata da scaglie più grosse, tanto che geologicamente si parla di frattura “a saponetta”. Gli argilloscisti del galestro modulano un Sangiovese con una tensione tannica difficilmente affrontabile nei primi anni di evoluzione: la stretta gustativa del tannino chiude le espressioni sapide e ingabbia la freschezza, soffre in complessità, ma lascia intuire un magico potenziale evolutivo. L’alberese interessa i sottosuoli di Gaiole, Castellina e Radda, ma non li accomuna in un’identità, un suolo, un terroir, un vino: le distanze organolettiche sono nette e distinguibili. L’alberese tipicizza il Sangiovese fin dal colore, vivido ma più concentrato; marca la finezza olfattiva, più che l’irruenza, il tannino smussa le durezze, lasciando spazio a un palato dotato di acidità e sapidità che assembla una struttura corroborata dall’alcol, proiettando il vino in finezza e longevità. A Gaiole in Chianti, l’alberese si incontra con il Macigno del Chianti che tende a prevalere, la pietrosità è compatta, calcarea, con base di arenaria e alberese. L’incontro tra alberese e galestro è benefico per il Sangiovese, il suo rubino/carminio luccica, viola e giaggiolo si miscelano con il balsamico, il fruttato ricorda il ribes rosso, e non manca lo speziato; il gusto mantiene un effetto rinfrescante nonostante l’alcol; il tannino, pur con rugosità giovanile, non sgomita per imporre la sua presenza nella struttura, la sostiene senza note amaricanti e, grazie allo scheletro del suolo, il palato si insaporisce di mineralità salina. La zona, al pari di altre del Classico, risente molto della diversa altimetria, che oltre a cambiare il suolo (alberese in alto, fluviale con limo, meno scheletro ma con argilla in basso), modifica anche l’esposizione, e il sangiovese si trasforma nuovamente. A Castellina in Chianti e a Radda in Chianti, nei vigneti in quota, anche fino a 600 metri, la percentuale di alberese è rilevante. In altura i terreni si fanno poco profondi, sono poveri, la vite soffre, il legno si contorce, la pianta si protegge sviluppando più polifenoli, il tannino acquista una personalità gustativa severa e necessita di tempo per affievolire l’inflessibilità. A Radda c’è molto galestro con alberese, quindi suolo ricco di scheletro, ma è presente anche l’argilla. Qui il vino si veste di colori brillanti, rosso carminio, fa spiccare il floreale sul fruttato di susina rossa, attira nella struttura alcol e tannino; il risultato è un Chianti Classico con fini profumi e vibrante tannino; le papille gustative sono gradevolmente scosse dalla scontrosa durezza della pubertà del vino: un tannino raddese. Se da Radda si scende verso la Valdelsa, si incontra più argilla, che dà potenza tannica, accentua colore e struttura, svantaggiando la compiutezza e la cesellatura della finezza. Il cambiamento si fa più evidente con la diminuzione dell’altimetria e il conseguente innalzamento della temperatura media. Passando da 600 a 200 metri, il Sangiovese non perde di cromaticità, che resta intensa, e il profumo abbina al binomio viola-marasca anche un po’ di azzeruolo. Appena in bottiglia il tannino è tenace, ma il tempo gli consentirà di raggiungere equilibrio e armonia. Il nord castellinese caratterizza il sangiovese anche in saporosità minerale, che fondendosi con tannino e acidità procura immediatezza di beva; quando a sud l’alberese lascia il posto all’argilla pliocenica, il vino si arrotonda, quasi si addolcisce, acquistando una generale complessità. Orientarsi tra i Chianti Classico di Gaiole, Castellina e Radda in Chianti è complicato, perché ogni areale ha fasce di coltivazione che si estendono in microareali differenti, anche se vicini. Si potrebbe tentare di sviluppare un concetto organolettico borgognone, magari con la filosofia del lieu-dit, del toponimo. I confini settentrionali dei comuni di Radda e Castellina rappresentano parzialmente una frattura strutturale per il suolo vitato e un divisorio climatico, meno caldo e più schermato a nord. Su base geografica c’è chi parla di Chianti Classico fiorentino e di Chianti Classico senese, disegnando una linea che sotto Barberino Val d’Elsa s’incunea tra le medie ondulazioni vallive fino a sud di Panzano e giunge sotto il monte San Michele. Che cosa succede al sangiovese nella zona nord? Esistono un sangiovese fiorentino e un sangiovese senese? Nella parte ovest dell’areale della Docg, nei terroir di Poggibonsi, Barberino Val d’Elsa e Tavarnelle Val d’Elsa il suolo ha un mix di marne e calcare (a Poggibonsi), argilla, sabbia e conglomerati marini (a Barberino e a Tavarnelle). Il sottosuolo è molto più complesso, e talvolta la percentuale di scheletro (ciottoli silicei) è un po’ esigua. In genere, in queste zone il Sangiovese si mostra un po’ più scuro, ma sempre vivace nel rosso carminio; evidenzia una maggior offerta olfattiva nel fruttato rispetto a quello senese. Non accade la stessa cosa con la struttura, che cede un po’ in vigore, il tannino, che non è tenace come nel terziere del Chianti, non tende a prevalere e la gradevolezza del corpo è aiutata dalla sapidità, che qui si definisce “marina”. A Greve in Chianti e a San Casciano in Val di Pesa il sangiovese si fa tutto fiorentino, seppur con i dovuti distinguo territoriali, se non altro perché nella parte est di Greve è presente il Macigno del Chianti che manca invece a San Casciano. Digradando verso il fiume Pesa il suolo presenta limi e argille, ideali per questo vitigno a patto che ci sia dello scheletro a cesellare la completezza organolettica. A San Casciano non tutto il territorio comunale insiste nel Chianti Classico, il suolo è geologicamente più omogeneo, con presenza di sabbie limose di origine fluviale e marina e gli indispensabili ciottoli arrotondati di tipo alluvionale. Il Sangiovese ha una distinguibile vivacità cromatica tendente al rubino; il profumo floreale gareggia con il fruttato, il sottofondo speziato è accennato, e la complessità irrinunciabile. Il corpo è costruito da un tannino mai dominante, che si equilibra con l’alcol, accompagnato da una finissima mineralità e dalla freschezza di una succosa ciliegia. L’area di Greve in Chianti è un cosmo in cui incidono morfologicamente i suoli dei Monti del Chianti, la cui influenza però non avvicina il sangiovese coltivato qui a quello di Radda e Gaiole. La zona sconta una divisione in due versanti opposti inframezzati dalla valle del fiume Greve, con la parte est mediamente più fresca della parte ovest, e chiude la suddivisione a sud con il borgo di Lamole. Intorno al borgo il suolo è composto di alberese e galestro, con ricca presenza di ferro e manganese. I vini assorbono tutta la raffinata essenza del giaggiolo, cha si intreccia a fruttato (corniola) e speziato e sfuma con la mammola. La mineralità gustativa si abbina a tannini più gentili di quelli raddesi, che talvolta devono però faticare per essere riassorbiti nell’equilibrio gusto-olfattivo. I terroir di Greve in Chianti posti tra le vallate del fiume Greve hanno suoli molto complessi, insistono nel calcare (che dona corpo, alcol e aroma di ciliegia), nell’arenaria (che apporta vivacità di colore, tratto floreale e un tannino duro ma fine) e nell’argilla (con esito fruttato e potenza strutturale per tannino e mineralità). La parte nord di Greve può caratterizzare il Sangiovese per un tannino duro, mentre a est il vino deve compiere un percorso evolutivo più complesso per raggiungere l’equilibrio, ma non pecca mai di eleganza. A ovest del fiume Greve il clima più caldo può offrire al Sangiovese toni olfattivi meno marcati nei frutti selvatici, la viola non è di bosco, il tannino crea corroboranti contributi di pienezza al palato, senza una tenace astringenza a far scricchiolare l’equilibrio e la piacevolezza. Nel comune di Greve in Chianti, nella piccola val di Cintoia, 30 milioni di anni fa nacque la storia di una roccia chiamata Macigno, che oggi costituisce la straordinaria dorsale collinare del Chianti Classico: una roccia che è l’anima minerale, e non solo, del sangiovese, una roccia che potrebbe diventare il marchio enologico del Chianti Classico, come la craie lo è per lo Champagne. Il dibattito su sangiovese e terroir si è innescato, con la consapevolezza che occorre fare qualcosa di strategico per il futuro di questa storica e aristocratica denominazione, oggi un po’ appannata dal potente marketing collegato alla parola “Toscana”. Anche il concetto di zonazione non sembra raccogliere tutte le esigenze che animano il terroir, e perfino questo termine rischia di perdere il suo appeal in un panorama ampelografico dalla complessità quasi non catalogabile. Il Sangiovese nel Chianti Classico può avere un futuro radioso, un attore di micro-poliedricità geo-enologiche, a patto che il savoir-faire chiantigiano valorizzi i suoli, il vitigno, l’altimetria e la combinazione clima/esposizione. È indispensabile offrire al Sangiovese la possibilità di essere testimone della sua differenza, perché questo gli creerebbe finalmente un’autentica originalità.