In Italia ci sono terre del vino da tempo celebrate, orgogliose della loro fama internazionale, consapevoli del proprio valore come regine assise in
trono con lo scettro in una mano e la sfera armillare nell’altra. E ci sono terre del vino storicamente più nascoste, lontane dai riflettori. In questo
aiutate magari da una collocazione geografica fuori dai binari consueti del treno enoturistico italiano e straniero. Fuori dalle rotte delle Langhe e
dei grandi distretti di rossi toscani Bolgheri/Chianti/ Nobile/Brunello. Fuori anche, e per molti anni, dai radar degli appassionati più attenti.
È il caso dell’area di produzione del Rossese di Dolceacqua, sui rilievi collinari che salgono ripidi dal mar Ligure verso le montagne alpine, quasi al
confine con la Francia. Da quanto tempo il Rossese è uscito dal cono d’ombra del consumo locale, dal passaparola tra zio e nipote? Dieci, forse quindici
anni? Non molto di più, in ogni caso. Eppure qui nasce uno dei vini più ricchi di originalità e – nei casi migliori – di intensità aromatica dell’intera
penisola.
Non essendo un topografo, né un geologo, né un ampelografo, e nemmeno uno storico, non mi addentro in descrizioni dettagliate del territorio e del suo
retaggio plurisecolare. Basterà forse qualche accenno sparso al carattere davvero unico del contesto paesaggistico, che non ha nulla della scenografica
ma ormai iperturistica luminosità della costa ligure ed esprime piuttosto una bellezza severa e appartata.
Una bellezza punteggiata da pochi vigneti, quasi invisibili lungo le strade di fondovalle. La produzione di vino, che le fonti documentali fanno
risalire almeno al Medioevo, è stata qui come altrove falcidiata dalla fillossera alla fine dell’Ottocento (anche se non mancano vigne centenarie ancora
su piede franco). Nei primi decenni del secolo scorso l’area ospitava diverse migliaia di ettari a vite, che oggi si sono ridotti a circa un centinaio,
polverizzati in microappezzamenti terrazzati. I determinati vignaioli locali hanno individuato nel tempo una trentina di cru, ovvero nomeranze. La
maggior parte delle bottiglie migliori proviene dalle due grandi sezioni del territorio, la val Nervia e la val Verbone. La prima, più ariosa, sale fino
al paese medievale che dà il nome al rosso, Dolceacqua. La seconda, più chiusa, gode di una maggiore vicinanza al mare e ha quindi in media un clima più
mite. Semisconosciuto al grande pubblico dei bevitori fino a poco tempo fa, il territorio non è ovviamente sfuggito ai numi tutelari della critica
enologica. Qui ci sta bene la ormai ineludibile citazione a Mario Soldati e al suo libro/spartiacque Vino al vino: “L’aspetto delle vigne ha
qualche cosa di rude, di volontario, di arrischiato. In complesso, un paesaggio, opposto a quello del Pornassio, ma egualmente forte. E anche la vecchia
villa del generale Origo, che intravediamo tra altre vigne lungo il sentiero del ritorno, partecipa in qualche modo a quell’atmosfera rustica e
romantica”.